sabato 27 luglio 2013

Congresso del PdCI: il passato che non passa (di Franco Ferrari)

Si è concluso da poco il Congresso straordinario del PdCI che ha portato tra l'altro all'elezione di un nuovo segretario, il marchigiano Cesare Procaccini, al posto di Oliviero Diliberto che lo aveva guidato dalla fondazione.

Quale giudizio si può dare di questo Congresso? Non mi pare abbia determinato grandi novità nell'impostazione di fondo, ideologica e strategica di questo partito. Forse solo su due punti, pure significativi, si registra un cambiamento. Il primo, ed è stato il più ampiamente rilevato, riguarda il giudizio sul PD, per il quale si parla di "involuzione". "Dopo la sconfitta di Bersani, settori rilevanti del gruppo dirigente del PD fanno ormai parte in modo sempre più organico del blocco moderato e centrista, sia a livello nazionale che euroatlantico". Si può discutere se questa valutazione sia valida solo "dopo la sconfitta di Bersani" e non già prima e se questa sconfitta non sia dovuta proprio al carattere moderato e centrista del partito. Ma questo, in fondo, riguarda il passato. 

Per il presente si dice che: "il 'centro-sinistra', almeno così come l'abbiamo conosciuto finora non c'è più", e quindi ci si deve concentrare sulla costruzione di uno "schieramento unitario a sinistra" che poi valuterà "autonomamente" come rapportarsi alle "contraddizioni interne e all'evoluzione di altre forze". Ad un giudizio netto in partenza, fa seguito una formulazione che, ricorrendo al politichese, lascia qualche ambiguità. In linea di massima si può dire che il PdCI sembra non dare più la stessa priorità all'accordo col PD e il centro-sinistra e questo è un fatto positivo, perché questo elemento soprattutto ha portato al fallimento della Federazione della Sinistra. Senza volersi basare sulla logica del sospetto, resta da capire se questa posizione è in grado di reggere anche nel momento in cui si dovesse avvicinare una scadenza elettorale. Si può prendere atto per il momento di un elemento positivo.

Il secondo punto di novità rispetto alle posizioni passate del PdCI riguarda la posizione sull'Unione Europea. I "comunisti italiani" avevano tenuto per molto tempo una posizione ultra-europeista, in linea con la rivendicata tradizione "amendoliana" del PCI. Si erano schierati, forse unici nella sinistra comunista e alternativa europea, a favore del trattato costituzionale quando questo veniva bocciato dall'elettorato francese. Ora effettuano una svolta di 180 gradi riproponendo una vecchia prospettiva: la "cooperazione pan-europea tra Stati sovrani". Mi pare che da una posizione errata da un versante, l'adesione subalterna alla costruzione europea ad egemonia liberista, si sia passati all'errore opposto. Si ripropone una centralità della sovranità nazionale che risulta largamente inadeguata di fronte all'evoluzione del capitalismo globalizzato e finanziarizzato. La posizione prevalente nella Sinistra alternativa europea, che a me pare decisamente più convincente, è quella di una rifondazione democratica e sociale dell'Europa. Si propone di costruire un'alternativa, nel conflitto, al progetto neoliberale di UE, ma restando sul terreno dell'integrazione tra Stati.

Dentro a questa differenza strategica, ci sono però anche molti punti in comune. Mi sembra condivisibile la posizione di non porre almeno in questa fase l'obbiettivo dell'uscita dall'euro. In questo caso è una posizione largamente condivisa a livello europeo, pur con un dibattito aperto in diversi Paesi.

Sul piano internazionale c'è la riproposizione di una lettura che nel nostro gergo si definisce "campista". In sostanza le tendenze internazionali sono analizzate ancora sulla base di uno scontro tra campi. Un tempo c'era il "campo" del socialismo guidato dall'URSS e di fronte il "campo" dell'imperialismo guidato dagli Stati Uniti. Nonostante i profondi cambiamenti intervenuti con la fine dell'Unione Sovietica e il superamento della guerra fredda, si ripropone la medesima logica. Al campo del socialismo si sostituisce "la centralità del ruolo dei BRICS e soprattutto della Cina nella costruzione di un nuovo contesto internazionale progressivo, in cui si creino condizioni più favorevoli alla lotta per il socialismo". Senza voler sottovalutare alcuni elementi positivi che l'emergere di nuove potenze economiche può portare sul piano degli equilibri internazionali, rispetto ad un mondo dominato dagli Stati Uniti, resta il fatto che in buona parte questi paesi si muovono per cambiare gli equilibri economici all'interno del capitalismo globalizzato e non per porre il tema di un suo anche parziale o graduale superamento. Il ruolo della Cina, che persegue il proprio sviluppo nazionale, è quantomeno ambiguo e dal punto di vista ideologico rappresenta per ora un punto di appoggio all'idea egemonica secondo la quale non vi è alternativa al capitalismo.

Venendo alle questioni di strategia politica a livello nazionale, due sono le questioni che mi preme valutare.
Innanzitutto la questione dell'"unità comunista" o, per usare le parole del Congresso del PdCI, della ricomposizione unitaria dei comunisti. Qui vedo alcuni elementi realistici condivisibili ed altri più ambigui che richiederebbero un confronto più esplicito. Valuto positivamente che questa ricomposizione sia rilanciata "nelle forme oggi possibili, a partire da una credibile unità d'azione", penso che questo sia il terreno effettivamente perseguibile. Mi sembra ambigua la formulazione che segue quando si dice che oltre alla "ricomposizione unitaria dei comunisti" va perseguita, "insieme", quelle delle "forze della sinistra anticapitalista e antiliberista". Non si pone infatti l'obbiettivo che a me pare invece centrale della costruzione di un "soggetto politico plurale" di carattere anticapitalistico e antiliberista con ambizione a diventare soggetto di massa. Anzi si mette soprattutto in guardia al fatto che questo porterebbe a "rimuovere le proprie radici".

Lanciato il tema della ricomposizione si pongono elementi di distinzione. Ci si rivolge infatti, "in primis" a quanti si richiamano "alla grande esperienza del movimento comunista mondiale e italiano e non intendono buttarla alle ortiche". Ma il problema, e questo è un punto dirimente, è quella non si tratta di tenere o buttare quella esperienza, in toto, ma di rielaborarla criticamente a partire da alcuni punti fermi: 1) la sua non riproponibilità per l'oggi e quindi non solo la vacuità, ma il carattere negativo del progetto di ricostruzione di un "movimento comunista mondiale" che diventi ostacolo alla ricostruzione di una più larga unità della forze anticapitaliste e antiliberiste sul piano mondiale. 2) la condanna delle stalinismo come precondizione per avviare un processo di rinnovamento politico e culturale adeguato a fare i conti con la sconfitta storica del movimento comunista novecentesco. L'ampio rilievo dato dal Congresso del PdCI a due esponenti della corrente neo-stalinista come il siriano Bagdache e il filosofo Losurdo, lascia capire dove batte il cuore del partito, o almeno di una parte rilevante di esso.

E' ben evidente che su questi punti, mi pare venga meno oggi la possibilità di una confluenza dei comunisti in un unico partito, mentre resta aperta la ricerca dell'unità d'azione sia nei movimenti di lotta che sul piano elettorale. Che esistano questi ostacoli di fondo lo si percepisce anche dallo stesso documento del PdCI che respinge una unità "eclettica". Anche se non chiarisce che cosa renderebbe "eclettica" tale unità i punti sopra richiamati lo esplicitano senza alcun dubbio. Per lo stesso motivo ci si rivolge non al PRC in quanto partito, ma "ai compagni di Rifondazione che avvertono la stessa esigenza", con una operazione che sembra più simile al trasloco del gruppo dell'Ernesto dal PRC al PdCI che non ad una vera unificazione dei due partiti. 

Permane un dissenso di fondo con il PdCI su come si possa essere comunisti dopo la sconfitta del novecento e su come si debba esserlo dentro ad un processo radicale di ridefinizione della sinistra anticapitalista a livello mondiale. Nel PdCI prevalgono, a volte in modo ossessivo, gli elementi di continuità laddove invece dovrebbero prevalere gli elementi di innovazione. E qui preciso che non credo che l'innovazione coincida con la tabula rasa o il big bang come a volte si è pensato anche dentro Rifondazione Comunista. Si innova a partire da un patrimonio di idee e di esperienze storiche che va conosciuto innanzitutto, analizzato criticamente, e rispetto al quale va tratto un bilancio politico senza ambiguità. 

Un caso evidente di ambiguità (quantomeno) nel documento del PdCI, già contenuto nel libro di Diliberto, Sorini e Giacché è quella relativa alla formulazione sul "socialismo nel 21° secolo". E' abbastanza noto, anche se poco approfondito, che a partire dalle esperienze dell'America latina e in particolare del Venezuela bolivariano si è iniziato a parlare di "socialismo del 21° secolo". Per quanto possa sembrare, ed in parte, è un bizantinismo, sostituire il "nel" al "del" significa trasformare un'indicazione di innovazione in una di continuismo. Socialismo DEL 21° secolo significa socialismo di tipo nuovo a partire da una critica radicale del modello staliniano e post-staliniano. Socialismo NEL 21° secolo vuol dire che si pensa allo stesso modello, magari un po' rispolverato, da traslare nel nuovo secolo. Non a caso la forza più coerente nel rilancio di una prospettiva "neo-stalinista", ovvero il Partito Comunista Greco, ha attaccato frontalmente l'idea del "socialismo del 21° secolo". Il PdCI non lo attacca, ma cerca di svuotarne il significato, senza avere il coraggio di fare una battaglia politico-ideologica chiara.

Franco Ferrari