Nel novembre del 2011 la National Defence University (NDU),
l’ateneo finanziato dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ha organizzato
una conferenza il cui tema era, in sostanza, il seguente: l’America ha bisogno
di una “grande strategia”?. Al convegno partecipavano un certo numero di quelli
che si potrebbero definire, usando la formula gramsciana, come gli
“intellettuali organici” dell’establishment politico-militare degli Stati
Uniti. Un volume che raccoglie alcuni degli interventi è stato pubblicato nell’ottobre
scorso sul sito dello Strategic Studies Institute.
Che cosa si intende per “grande strategia”? Le risposte
fornite nelle relazioni sono in parte diverse. Secondo la Dott.ssa Anne-Marie
Slaughter, che ha svolto la funzione di direttrice della “pianificazione
politica” del Dipartimento di Stato, la “grande strategia” o, come lei
preferisce definirla, la “narrazione strategica nazionale” è necessaria come
guida per il futuro. Secondo la Slaughter “noi abbiamo bisogno di una storia
che abbia un inizio, un intermezzo e una previsione di lieto fine che trascenda
le nostre divisioni politiche, ci orienti come nazione e ci fornisca sia una
direzione comune che la fiducia e l’impegno per condurci alla nostra
destinazione”. Un altro relatore, il professor Leon S. Fuerth, fornisce una
diversa definizione del concetto. Una strategia è un “piano per imporre un
esito predeterminato ad un sistema complesso”.
Secondo la curatrice del volume, la dott.ssa Sheila R. Ronis, nel corso della storia le “grandi strategie” si sono modificate in relazione alla crescita di complessità del mondo. E’ quindi probabile che una grande strategia che si voglia realizzare nel 21° secolo sia molto differente rispetto ai modelli del passato perché si è modificata la nostra comprensione del modo in cui i sistemi complessi, tra cui le nazioni, si comportano. Secondo la Ronis il Governo degli Stati Uniti, negli ultimi anni, ha prodotto una pletora di piani strategici che hanno riguardato soprattutto aspetti relativi alla sicurezza. Il più importante di tali documenti è il “National Security Strategy” ma, è il rilievo che avanza la Ronis, non è sufficientemente a lungo termine né si tratta di un vero piano strategico che colleghi le risorse con gli obbiettivi lungo una sequenza temporale.
La curatrice definisce alcuni dei temi che andrebbero approfonditi
e che sono oggetto del convegno: che cos’è una “grande strategia”? quali
lezioni offre la storia? una “grande strategia” è possibile in un mondo complesso
e attraversato da molte divisioni politiche come l’attuale? qual è il ruolo
della previsione strategica nello sviluppare ed implementare la “grande
strategia”? come possiamo educare i leaders politici attuali e futuri a pensare
strategicamente?
Tornando al Prof. Fuerth, un accademico che è stato titolare
di ruoli politici influenti, egli chiarisce quelli che secondo lui sono alcune
delle caratteristiche necessarie di un “grande strategia”. Deve essere
comprensiva, ovvero risolvere una serie di problemi, deve avere una durata
sufficiente per poter arrivare al completamento, non deve essere suscettibile
di un fallimento disastroso, nel momento inevitabile nel quale dovrà
confrontarsi con eventi e condizioni non previste nelle sue premesse.
La grande strategia, non è solo la somma di parti
specifiche, deve inglobare una serie di possibili azioni: dalla manovra alla
tattica, alla battaglia, alla campagna (in senso militare) e così via. Occorre
prevedere che intervenendo su sistemi complessi una strategia che abbia
successo non finirà comunque in una marcia trionfale ma semplicemente porterà
ad una nuova e diversa serie di problemi. Un altro elemento che aggiunge il
Prof. Fuerth è che la “grande strategia” è una “narrazione” ( e qui torna
l’elemento presente nella definizione della Slaughter) che deve essere
condivisa da chi guida e da chi è guidato. Ma non tutte le narrazioni sono
strategie, a volte si tratta solo di favole (“fairy tales”) mascherate da grandi
strategie.
Ancora, aggiunge Fuerth, non ci può essere una “grande
strategia” senza la capacità di mantenere un comportamento strategico, non ci
può essere comportamento strategico senza previsione, e non ci può esse
previsione senza la capacità di riferirsi ai fatti come si materializzano
piuttosto che ai fatti come erano immaginati.
Raccolti questi che sono soli spunti per la discussione, la
domanda che segue è: che c’entra tutto questo con lo stato della sinistra
italiana? I partecipanti al dibattito della National Defence University, hanno
un obbiettivo che è molto lontano dal nostro: mantenere intatto il predominio
americano nel mondo e garantire che il modello politico, istituzionale ed
economico che ha permesso agli Stati Uniti di diventare la maggiore potenza
mondiale nel corso del 20° secolo, diventi il parametro al quale tutto il resto
del mondo deve adeguarsi.
Ma questo non toglie che la definizione di una “grande
strategia” sia un’esigenza che si pone, ovviamente in termini e condizioni
diverse, anche per la sinistra italiana. E che alcune delle indicazioni di metodo che
emergono dal dibattito degli strateghi degli Stati uniti possano essere la base
per un salto di qualità nel nostro dibattito.
Se guardiamo alla storia italiana del dopoguerra si può
affermare che vi siano state principalmente due “grandi strategie” che possono rientrare
in questa definizione, entrambe formulate dal gruppo dirigente del PCI in
momenti successivi: la “democrazia progressiva” e la “via italiana al
socialismo”. La prima ha guidato il partito anche in condizioni molto diverse (il
passaggio drammatico dall’unità antifascista alla guerra fredda) fino alla metà
degli anni ’50. La seconda vi è subentrata dal ’56 come riformulazione della
precedente tenendo conto degli effetti della destalinizzazione in URSS e delle
contraddizioni del blocco socialista. Si può dire che successivamente, durante
la direzione di Berlinguer, si sono susseguite strategie diverse e in parte
contraddittorie (compromesso storico e alternativa democratica) che non hanno
avuto per ragioni soggettive ed oggettive la stessa coerenza.
Dopo il crollo del campo socialista e lo scioglimento del
PCI, la sinistra italiana non è ancora riuscita a formulare una “grand
strategy” così come viene definita dai teorici americani. Da un lato l’evoluzione
(o involuzione) verso il Partito Democratico ha visto un radicale mutamento dei
fini della componente di derivazione ex-PCI: dalla critica al capitalismo all’integrazione
nel capitalismo liberista, con diversi gradi di adattamento ideologico. Renzi,
a differenza delle direzioni precedenti del PD che cercavano di sostituire la
debolezza strategica con l’antiberlusconismo, ha (o almeno vuol far credere di
avere) un indirizzo strategico che,
depurato dalla demagogia e da un discreto tasso di ciarlataneria,
sostanzialmente è questo: l’Italia deve ammodernarsi per partecipare alla
competizione globale così come definita dal capitalismo finanziario e
globalizzato. Le scelte fondamentali che sono alla base di questo
ammodernamento sono quelle predicate negli ultimi decenni dal pensiero unico:
privatizzazioni, flessibilità del lavoro, riduzione della spesa pubblica,
esaltazione del mercato, della concorrenza e della competizione come principi
sociali assoluti ed efficienti, centralizzazione della decisione politica nelle
mani dell’unico al potere, titolare di una delega plebiscitaria.
Le possibilità di successo di questa strategia derivano principalmente dalla capacità del capitalismo di riprendere una certa marcia verso lo sviluppo economico e, più in specifico, del capitalismo italiano di inserirsi in questa ripresa. Un capitalismo destinato comunque ad essere subalterno sul piano europeo e mondiale (come dimostra la progressiva svendita di tante imprese tricolori a compratori esteri) ma in grado di intercettare una certa quota di ricchezza che vada almeno a favore di una fascia di popolazione medio-alta (in termini di reddito).
Le possibilità di successo di questa strategia derivano principalmente dalla capacità del capitalismo di riprendere una certa marcia verso lo sviluppo economico e, più in specifico, del capitalismo italiano di inserirsi in questa ripresa. Un capitalismo destinato comunque ad essere subalterno sul piano europeo e mondiale (come dimostra la progressiva svendita di tante imprese tricolori a compratori esteri) ma in grado di intercettare una certa quota di ricchezza che vada almeno a favore di una fascia di popolazione medio-alta (in termini di reddito).
Non mi interessa qui discutere la realizzabilità o meno di
questa strategia, né il costo sociale, culturale e politico (dal punto di vista
della evidente riduzione della democrazia) che tutto questo potrà avere, ma
solo evidenziare che è con questa “narrazione strategica” che ci si deve misurare.
La sinistra invece, dopo la fine del PCI, ma anche per le
contraddizioni che erano già presenti nell’ultima fase di vita del Partito
Comunista , non ha ancora oggi un vero disegno strategico da contrapporre alla
modernizzazione liberista dell’Italia perseguita da Renzi. Una prima fase è
stata soprattutto difensiva ed identitaria. Alcuni hanno perseguito l’
inserimento nel centro-sinistra, nell’idea di poter contribuire ad un disegno
strategico comune anche se conflittuale (“la sinistra del centro-sinistra”).
Nelle sue diverse varianti, (PdCI, PRC nel governo Prodi, SEL) ha dimostrato di
non funzionare. Ora sembra non esistere
nemmeno più come possibilità, dato il passaggio dalla visione inclusiva e
plurale del centro-sinistra incarnata a suo tempo da Prodi a quella esclusiva
ed integralista rappresentata da Renzi (neo-fanfaniana per chi voglia fare
paragoni storici).
L’unico tentativo di ripensare un disegno strategico è
quello tentato dal PRC nella prima fase della segreteria Bertinotti. Ha avuto
però molti limiti dal punto di vista dell’analisi, spesso stimolante ma anche
superficiale, per l’identificazione idiosincratica con un leader, per la scarsa
attenzione agli strumenti con i quali quella strategia poteva essere
perseguita. Alla fine è diventato
contraddittoria ed incomprensibile. La proposta strategica era solo un modo
enfatico per dare maggiore dignità a svolte tattiche improvvisate.
Ora abbiamo l’assenza di un vero disegno strategico. Questo
non significa che su gran parte delle questioni politiche ed economiche
contingenti le posizioni espresse non siano per lo più corrette. Ma non c’è la
capacità di unire le singole posizioni in un quadro unitario che indichi una
prospettiva. Una “grande strategia” è anche la capacità di indicare un “lieto
fine”, per quanto ovviamente parziale e provvisorio esso sia, ma credibile e
con una sensibile incidenza sulla vita delle persone. Per usare le parole della
Slaughter una strategia che “ci orienti (…) e ci fornisca sia una direzione
comune che la fiducia e l’impegno per condurci alla nostra destinazione.”.
Ci sono due false soluzioni a questo problema. La prima è di
ripescare strategie del passato e riproporle pensando che possano funzionare e
che siano credibili, unificanti e mobilitanti. La seconda è di pensare di
influire dall’interno su una correzione di strategie definite da altri. Detto
questo resta molto da fare in termini di adeguatezza dell’analisi, di capacità
di formulare proposte ma soprattutto credo che si debba ripartire dai bisogni
sociali e dal senso comune, non per appiattirsi sull’esistente, ma per
formulare una “grand strategy” che davvero possa uscire dai circoli mentali
viziosi nei quali spesso ci siamo dispersi in questi anni. Per realizzare
questo obbiettivo possiamo contare sull’emergere di una nuova sinistra a
livello europeo (la campagna per la candidatura di Tsipras, che coagula forze importanti, è parte di questo processo), come
della ricca esperienza dell’America latina, quindi non partiamo certo da zero.
Franco Ferrari
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