domenica 30 ottobre 2011

Il vicolo cieco degli "incappucciati"

Gli scontri del 15 ottobre durante la manifestazione romana dei cosiddetti indignati hanno sollevato un polverone di commenti e di analisi. Al di là delle polemiche strumentali e delle valutazioni superficiali ci sono diverse questioni che vanno esaminate perché si collegano ai temi complessi della costruzione di una sinistra alternativa in Italia e, intrecciato a questo obbiettivo, a quello della costruzione di un articolato e pluralista movimento antiliberista di massa.


Lo scatenarsi della violenza da parte di una minoranza dei manifestanti confluiti a Roma e gli scontri molto duri con la polizia hanno condizionato la manifestazione, che pure ha avuto una forte partecipazione popolare e una grande presenza di giovani. Il primo punto che va chiarito riguarda la natura degli scontri. Abbiamo registrato l'effetto di una azione politica perseguita da gruppi frastagliati ma ben determinati o ad una forma di reazione spontanea effetto del "disagio sociale"?


Le analisi più precise ci indirizzano versa la prima ipotesi. Una serie di gruppi hanno puntato sulla trasformazione dell'appuntamento del 15 ottobre, da manifestazione pacifica a occasione di scontro con il "potere" rappresentato dalla polizia e dai carabinieri. E quindi occorre approfondire l'analisi politica piuttosto che nascondersi dietro vaghi sociologismi giustificatori.


I gruppi che hanno operato per trasformare la natura della manifestazione si collocano nell'ambito di tre filoni ideologici. Il primo è quello anarchico, anche se di un anarchismo diverso da quello tradizionale, dal quale pescano elementi di rifiuto della politica e della rappresentanza, forme organizzative relativamente acefale e una qualche tendenza al nichilismo sociale. Lo stesso movimento originario dei "Black Block" americani si collegano alla tradizione e alla ideologia anarchica. All'anarchismo e all'antiautoritarismo libertario si rifanno parte dei movimenti violenti greci, tra cui quelli che si sono recentemente scontrati duramente con il servizio d'ordine del PC Greco in Piazza Syntagma ad Atene.


Il secondo filone, probabilmente maggioritario, si ritrova in continuità con l'autonomia operaia degli anni '70, anche se questa area è in parte evoluta su posizioni meno primitive, che rifiutano l'esaltazione acritica della violenza, pur senza rinnegarla in toto, e si pongono il tema del rapporto con la politica ed il sindacato, come fa una parte dell'area dei centri sociali (Italia del nord-est, gruppi romani, ecc.). 


Infine si ritrova qualche organizzazione minore che si collega al maoismo radicale, ideologia che in parte aveva influenzato settori del terrorismo degli anni '70. Alcuni provengono dall'evoluzione di settori minoritari di quell'esperienza, sopravvissuti alla dura sconfitta che hanno subito, altri si sono sempre mossi in polemica che le ideologie combattentistiche del partito armato.


Questi gruppi, che nel complesso mi sembrano piuttosto poveri dal punto di vista dell'elaborazione ideologica e politica, si ritrovano attorno ad alcuni concetti piuttosto semplici che trovano una certa eco in settori minoritari ma non insignificanti del movimento anticapitalista ed antiliberista. Citerei in particolare i temi della rappresentanza e della violenza.


Viene teorizzato un rifiuto della rappresentanza che, estremizzato, diventa rifiuto della politica e della democrazia. Questa parola d'ordine, "nessuno ci rappresenta e nessuno ci può rappresentare", trova  spazio e si alimenta nella crisi delle tradizionali forme della rappresentanza politica e sociale. Siamo indubbiamente in presenza di una crisi della democrazia e di un evidente e crescente conflitto tra dinamiche del capitalismo liberista globalizzato e gli assetti democratici acquisiti, non definibili solo e riduttivamente come "borghesi", in quanto sono figli dell'azione decennale del movimento operaio e più in generale dei movimenti di trasformazione sociale. 


Nelle pratiche dell'estremismo la crisi della rappresentanza serve a motivare non solo un rifiuto della dialettica politica istituzionale ma anche un attacco diretto a tutte le forme di rappresentanza e di organizzazione, comprese ed a volte principalmente, le organizzazioni e le strutture del movimento anticapitalista ed antiliberista che si pongono invece in positivo il tema della rappresentanza e dell'azione politica. In questo senso l'azione svolta alla manifestazione del 15 ottobre era coerente con le premesse ed era quindi un attacco portato non al potere economico e finanziario ma a quelle forze che all'interno della manifestazione si ponevano sul terreno della relazione tra azione sociale e lotta politica. Bisognava far saltare la manifestazione come "passeggiata", la conclusione a Piazza San Giovanni come "passerella sul palco", e impedire il tentativo, vero o presunto, di saldare il movimento ad un progetto politico. Così come diventa coerente alle premesse il rifiuto ad accettare anche la democrazia nel movimento, rifiutando di accettare l'evidenza palese che la stragrande maggioranza dei manifestanti non era affatto favorevole alla trasformazione dell'appuntamento in rissa con le forze dell'ordine o al ricorso al teppismo come strumento di lotta. 


L'attacco alle dimensioni di massa del movimento antiliberista diventa funzionale all'offensiva dall'alto contro questo movimento ancora potenziale (od anche al desiderio di cooptarlo in forma subalterna) unitamente al tentativo di impedire che diventi fatto politico e non solo espressione di "disagio sociale". Fu in parte così anche negli anni '70 quando un ben più consistente movimento di massa, utilizzando anche gli indubbi errori del movimento operaio e comunista, favorì la ripresa di egemonia del capitale sancita con la sconfitta operaia alla FIAT dell'81.


L'altro tema caratterizzante del movimento degli incappucciati è quello dell'uso dello violenza. Il ragionamento è semplice e consiste nel sostenere che le manifestazioni pacifiche lasciano indifferente un potere sempre più lontano da qualsiasi forma di legittimazione democratica, e che solo la violenza diventa efficace. L'argomento va respinto ma non sottovalutato, di fronte alla crisi della democrazia che attraversa il nostro paese, anche se si tratta di una tendenza generale a molte società, che in Italia assume forme peculiari ma non esclusive.


Non credo che su questo tema ricorrente (il ruolo e la legittimità della violenza nell'azione politica) sia utile una discussione che contrapponga idee assolute violenza/nonviolenza, che rischia di diventare metastorica (cioè sottratta ad un contesto determinato) e quindi metafisica, per ragionare nel merito di quale violenza sia legittima e di quale relazione debba avere con i fini perseguiti. L'esperienza storica concreta del movimento operaio e dei movimenti di trasformazione sociale ci insegna alcune cose. 


Intanto che il ricorso alla violenza è sempre stato in larga parte difensivo e reattivo. Difendere un'occupazione di terre da parte di contadini o il diritto a manifestare da parte di operai che si battono contro i licenziamenti è cosa ben diversa dal ricercare a prescindere lo scontro con la polizia fine a sè stesso. Seguendo le immagini degli scontri di Piazza San Giovanni, nonostante alcuni comportamenti assurdi delle "forze dell'ordine" come i caroselli dei gipponi, la provocazione e l'offensiva sembrava pressoché interamente nelle mani degli "incappucciati". In questo tra l'altro risulta una netta differenza con quanto accadde a Genova.


Inoltre quelle conquiste democratiche e sociali che oggi stiamo faticosamente cercando di difendere (dalla giusta causa per i licenziamenti, alle tutele sociali che hanno garantito alcuni diritti fondamentali come quelli alla salute ed all'istruzione) sono il frutto di lunghe battaglie politiche e sociali, rimaste interamente sul terreno pacifico, anche in anni nei quali la polizia interveniva pesantemente contro ogni forma di contestazione sociale.


Difficile invece trovare una sola conquista democratica e sociale che possa essere portata all'attivo dei movimenti violenti e militaristi degli anni '70 o, andando molto più indietro nel tempo, delle sommosse di ispirazione bakuniniana degli anni della seconda metà dell'800, che pure in Italia avevano un certo seguito. Nella pratica estremista che si è espressa anche il 15 ottobre a Roma la violenza non è nemmeno strumento (sia pure sbagliato) per un fine, quanto scorciatoia alla quale si ricorre avendo la consapevolezza di essere incapaci di produrre qualsiasi pensiero strategico e progetto di trasformazione. 


L'analisi politica di quanto è avvenuto a Roma resta quindi prioritaria. Capire chi ha scelto e imposto il terreno dello scontro, per quali obbiettivi, a partire da quali premessi ideologiche, è una condizione non per giustificare ma per aprire una lotta politica ideale che impedisca a questi gruppi, pur marginali, di fare troppi danni e per conquistare settori giovanili, che altrimenti potrebbero infilarsi nuovamente in un vicolo cieco, ad un'altra e più convincente prospettiva di lotta politica e sociale. 


Poi occorre anche capire in quali settori, in quali ambienti questo progetto politico possa trovare consensi. Distinguendo però la realtà che va indagata, con l'autorappresentazione che questi stessi gruppi danno delle loro azioni, quella dei "giovani proletari arrabbiati che danno sfogo alla loro rabbia", ecc. ecc. Gli elementi che abbiamo finora (da Er Pelliccia in avanti) non sembrano affatto confermare questa mitologia romantica. Anche le dimensioni di massa sembrano per ora assai modeste. Lo attesta il fatto che questi gruppi non siano in grado di promuovere proprie mobilitazioni di massa, ma possano solo parassitare altri movimenti, come è stato a Roma o come succede a volte in Val di Susa.


Non credo nemmeno che gli eventi di Roma possano essere considerati un successo per loro al di là del clamore mediatico che hanno suscitato e della sconfitta temporanea indubbiamente imposta in quel momento al movimento di massa antiliberista. Il polverone mediatico è spesso illusorio, tanto esteso quanto superficiale e pronto ad essere archiviato da nuovi eventi altrettanto clamorosi (infatti il tema del 15 ottobre è già sparito dai giornali). La reazione molto forte che è emersa dalla grande maggioranza dei partecipanti alla manifestazione del 15 ottobre ha determinato un isolamento politico di questi gruppi costretti sulla difensiva anche per la palese stupidità di alcune azioni intraprese a Roma. Tanto è vero che pur essendo evidentemente preparate e organizzate non si trova nessuno pronto ad assumersene la paternità.


I gruppi degli incappucciati quindi vanno duramente isolati e combattuti, ma la loro azione mette anche in evidenza alcuni dei problemi che oggi le forze antiliberiste ed anticapitaliste hanno di fronte a sè per definire una strategia credibile che superi l'attuale dispersione e frammentazione e che sia all'altezza di una fase di crisi strutturale della democrazia e del capitalismo.

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