mercoledì 23 novembre 2011

Il ritorno di Izquierda Unida

Le elezioni spagnole hanno confermato quanto era stato previsto dagli osservatori e dai sondaggi: una netta vittoria della destra conservatrice del Partito Popolare ed una sconfitta secca del PSOE. Nell'esito del voto queste previsioni risultano semmai accentuate, soprattutto per quando riguarda la sconfitta dei socialisti, ancora più catastrofica di quanto da loro temuto. La crisi economica e sociale ha vanificato il consenso che pure aveva accompagnato i primi anni dell'esperienza di Zapatero, quando era diventato un modello citato anche in qualche settore della sinistra europea, compresa quella italiana.

I socialisti avevano assunto posizioni avanzate in termini di diritti civili e laicità, ma sul piano economico-sociale avevano accompagnato con politiche social-liberali una crescita economica che si è dimostrata assai più fragile di quanto sembrasse inizialmente, in quanto basata sulla bolla speculativa legata al settore immobiliare. Al momento della crisi, che in Spagna ha colpito pesantemente settori popolari e ceti medi con milioni di disoccupati e centinaia di migliaia di famiglie impossibilitate a pagare il mutuo della casa e trovatesi  improvvisamente per strada, dopo aver sostenuto un ottimismo superficiale, il governo Zapatero ha adottato le politiche liberiste volute dall'Unione Europea. Il risultato è stato un ulteriore aggravamento delle condizioni di vita dei ceti popolari e soprattutto dei giovani, sempre più condannati alla precarietà e alla disoccupazione.

Il voto ha sancito la frana del consenso nei confronti del PSOE. A fianco di questo dato inoppugnabile, le elezioni hanno anche segnato il ritorno sulla scena politica di Izquierda Unida, la coalizione della sinistra alternativa, che esce da una lunga crisi politica ed elettorale. IU ha ottenuto 1.680.000 voti pari al 6,92% e 11 seggi. Nelle elezioni del 2008 aveva avuto 969.000 voti, pari al 3,77% e solo due seggi, uno a Madrid, andato all'allora leader della coalizione Gaspar Llamazares, e uno agli alleati di Iniciativa per Catalunya.

La nuova accresciuta rappresentanza parlamentare, pur nettamente sottodimensionata per effetto del sistema elettorale che non prevede un recupero dei resti a livello nazionale, consentirà al partito di costituire un proprio gruppo parlamentare e di avere una più significativa iniziativa a livello istituzionale. I parlamentari eletti provengono da Madrid (3), Catalogna (3), Aragona (1), Asturie (1), Paese Valenziano (1), Andalusia (2), e rappresentano le diverse anime della coalizione. Tra essi vi sono Cayo Lara, leader di IU, militante comunista, che ha ridato un profilo popolare e combattivo alla coalizione, ma anche guidato uno sforzo importante per ridurre i conflitti interni; Gaspar Llamazares, predecessore di Lara alla guida di IU, ex militante del PCE, portavoce di un'area più moderata che ha avuto un ottimo successo personale nelle Asturie; José Luis Centella segretario del Partito Comunista; Alberto Garzon Espinosa, economista, militante comunista, ma molto vicino al Movimento 15M (i cosiddetti "indignados"); Joan Josep Nuet, dirigente del Partito Comunista Catalano. Al loro fianco anche un rappresentante degli autonomisti aragonesi, due di Iniciativa per Cataluna, di orientamento ecosocialista e vicina ai verdi europei, ed altri esponenti dei movimenti ecologisti.

Izquierda Unida ha beneficiato della caduta verticale di consensi del PSOE, rispetto al quale ha scelto una linea più apertamente critica di quanto non avesse fatto durante la prima legislatura del governo Zapatero. Ha parzialmente intercettato i consensi del movimento degli indignados, pur scontando all'interno di questo movimento forti componenti che rifiutano la democrazia rappresentativa, la delega, e hanno fatto pressione per l'astensione. IU nel rivendicare la vicinanza delle sue proposte politiche con quelle del movimento ha però respinto le tesi sull'inutilità del voto, tesi che hanno potuto avere un più larga circolazione e credibilità per effetto dell'evidente svuotamento del ruolo delle istituzioni elettive, dovuto alla convergenza dei maggiori partiti, anime di un bipolarismo sempre più asfittico, alle esigenze del capitale finanziario.

IU aveva iniziato negli ultimi anni, sotto la guida di Cayo Lara, un processo di "rifondazione", per superare le tendenze all'eccessiva istituzionalizzazione, alla creazione di centri di potere locale, alla burocratizzazione e allo svuotamento dello spirito democratico e militante. L'obbiettivo è di rilanciare il carattere originario di movimento politico-sociale più che di partito in senso classico, di recuperare radicamento e protagonismo sociale e di superare le troppe conflittualità interne. Il successo elettorale costituisce un utile viatico a questo processo, ma sarebbe probabilmente un errore pensare che una volta recuperata le presenza istituzionale, il rinnovamento della coalizione non sia più una necessità urgente.

Il positivo risultato elettorale di IU ha portato in Italia qualche corrente della sinistra ad utilizzarlo subito in modo strumentale per sostenere questa o quella proposta politica o ideologica, con un provincialismo tipicamente italiano. C'è chi dopo aver sostenuto per anni che la crisi di Izquierda Unida era diretta conseguenze dell'abbandono dell'identità comunista, ora festeggia il successo dei "comunisti" forzando unilateralmente il reale e complesso pluralismo della coalizione. D'altra parte vi è chi tira la coperta dalla sua parte, isolando un solo elemento politico, quello della conflittualità con il PSOE (che peraltro non ha impedito il raggiungimento di accordi di governo locale in occasione delle ultime elezioni amministrative), ma portandolo fuori dal contesto, ovvero il fatto che in Spagna si esce da dieci anni di governo socialista che hanno cancellato molte illusioni e non da un ciclo di governo della destra come avviene in Italia o in Francia.

Un'ultima segnalazione riguarda l'esito elettorale di alcuni gruppi minori dell'estrema sinistra che si sono presentati in contrapposizione ad Izquierda Unida. Il PC dei popoli spagnoli (PCPE) è quanto rimane di una scissione filosovietica del PCE degni anni '80. La maggioranza del partito decise poi di rientrare nell'89 nel Partito Comunista, mentre una tendenza minoritaria ha mantenuto in vita il gruppo scissionista. La sua maggiore organizzazione territoriale era quella catalana, il PCC, che resta ancora oggi autonomo dal PCE ma, attraverso la versione locale di IU (EUyA, Sinistra Unita Alternativa), partecipa all'alleanza con gli ecosocialisti di IU ed è presente nel Partito della Sinistra Europea. Il PCPE, sostenuto dal KKE (il PC Greco, neostalinista), ha ottenuto lo 0,1%. Analoga percentuale è andata alla lista Anticapitalistas, sostenuta da Izquierda Anticapitalista, la corrente spagnola della Quarta Internazionale sorella dell'italiana Sinistra Critica, che analogamente alla rottura di quest'ultima dal PRC, scelse la strada della divisone da IU, sulla base di un orientamento settario assunto dalla organizzazione internazionale. Non arriva nemmeno allo 0,1% un piccolo gruppo maoista, l'Unificacion Comunista de Espana (UCE).

Discorso a parte meriterebbero le organizzazioni della sinistra nazionalista come Amaiur, che ha beneficiato evidentemente della decisione dell'ETA di abbandonare la lotta armata e il terrorismo, ottenendo un ottimo risultato, e il Blocco nazionale gallego (BNG), sorto originariamente da un gruppo di tendenza marxista-leninista e maoista, anche se oggi segue una politica che si potrebbe definire socialdemocratica di sinistra.

sabato 12 novembre 2011

La proposta del "partito di classe" cavallo di Troia per liquidare Rifondazione Comunista

Il documento congressuale presentato da Falcemartello nell'ambito dell'VIII Congresso nazionale di Rifondazione Comunista, merita di essere esaminato con una qualche attenzione, alla luce di ciò che contiene ma anche in considerazione dell'evoluzione sostanziale che ha subito la linea politica di questa corrente trotskista nell'arco di alcuni anni.

Il cuore della proposta consiste nella "costruzione del partito di classe". Le domande a cui rispondere sono: 1) quale rapporto avrebbe questo partito col PRC?; 2) con quali forze esso andrebbe costruito?; 3) quale dovrebbe essere la sua identità?.

Sulla prima questione va chiarito che non siamo in presenza di una proposta di maggiore radicamento operaio e di classe del PRC (proposta sostenuta da Falcemartello al VII Congresso, con la cosiddetta svolta operaia, e sintetizzata nella parole d'ordine della "nuova Rifondazione Comunista"), ma a tutti gli effetti di un nuovo partito. Questo elemento è largamente occultato nel dibattito alla base dagli esponenti di FM, ma è del tutto coerente con la posizione assunta nell'ultima assemblea nazionale del gruppo, nella quale si spostava l'asse della propria iniziativa politica collocandolo in una prospettiva di superamento del PRC. Le forze organizzate nel PRC andrebbero mobilitate per la costruzione di questo nuovo partito.

Con chi costruirlo? Falcemartello risponde che esistono oggi forze "nella FIOM; nella sinistra CGIL; in un settore dei sindacati di base; in un settore delle scissioni di sinistra del PRC; nel movimento di difesa della scuola pubblica e dei beni comuni". In larga parte si tratta delle forze che hanno dato vita all'assemblea del 1° ottobre sulla parola d'ordine del non pagamento del debito pubblico e che hanno come possibile loro leader Giorgio Cremaschi, dirigente Fiom e della rete 28 aprile (settore minoritario della sinistra CGIL). L'area CGIL attorno a Cremaschi, il gruppo di Sinistra Critica di Cannavò e Turigliatto uscito da Rifondazione, la Rete dei Comunisti con i suoi legami in una parte dei sindacati di base sono, detto in chiaro, gli interlocutori dell'operazione "nuovo partito di classe".

L'assemblea del 1° ottobre è rimasta però in sospeso tra costruire una realtà di movimento o dar vita ad un nuovo soggetto politico, come spiega Marco Veruggio sull'ultimo numero di Controcorrente. E Veruggio è il leader dell'altra mini-corrente del PRC alleata con Falcemartello nel documento 2. Ci si può chiedere se questo schieramento, al di là dell'impatto mediatico di Cremaschi (di cui parla lo stesso Veruggio), abbia davvero un'insediamento sociale, una chiarezza di prospettive ed una omogeneità di posizioni tale da poter costruire un partito realmente più ampio del PRC e non invece un altro gruppo settario simile a quelli di Ferrando (Partito Comunista dei Lavoratori) o di Rizzo (Comunisti-Sinistra Popolare).

Terzo elemento è quello dell'identità del "nuovo partito di classe". Su questo aspetto il documento di Falcemartello è piuttosto reticente. In nessun punto del documento si definisce questo nuovo partito politico come una forza comunista. Laddove si citano degli esempi si richiamano tre partiti tra loro molto diversi: il Partito socialista unito del Venezuela guidato da Chavez, il Partito dei Lavoratori di Lula in Brasile e il Partito Comunista d'Italia del '21. Due partiti citati non sono comunisti, anche se alla loro formazione hanno partecipato gruppi e correnti comuniste di vario orientamento. Quanto al riferimento al PCdI mi sembra assai debole anche nel richiamo all'effettiva vicenda storica, quando si introduce un nesso tra i Consigli di Fabbrica e la formazione del Partito. E' noto che il PCdI nacque con una netta egemonia della componente bordighiana che era al contrario nettamente ostile all'esperienza dei Consigli. Semmai il punto rivendicato nella fase successiva dalla direzione di Gramsci, era quello di avere ripensato il carattere del soggetto rivoluzionario in Italia, non più identificato nella sola classe operaia del nord ma anche nelle masse contadine del sud. In questo senso Gramsci contestava la visione monoclassista del Partito Socialista, che puntava sulla sola classe operaia. Erano, paradossalmente per chi ragiona per schemi, i massimalisti e i riformisti a rivendicare il legame esclusivamente operaio del partito. A conferma che ci può essere anche un "partito di classe" che non esce dal solco del riformismo.

La stessa frase di Gramsci citata nel documento mi pare affermare esattamente il contrario della prospettiva avanzata da Falcemartello, ovvero di un partito costruito da militanti senza alcuna base di massa (le masse arriveranno, come arrivano i tram, basta mettersi alla fermata giusta). Gramsci scrive che il Partito Comunista deve essere "sintesi e riflesso" dello spirito di iniziativa storica e aspirazione all'autonomia industriali esistenti in mezzo alla massa. Espressione di qualcosa che già esiste a livello di massa, quindi, non di qualcosa che arriverà in futuro.

Per chiarire ulteriormente che il "nuovo partito di classe" proposto da Falcemartello non è un partito comunista che si riconosca soggettivamente come tale, ricordo per differenza una frase chiave contenuta nel documento presentato al VII Congresso che certamente non è stata dimenticata per distrazione. Allora si affermava dopo una serie di considerazioni analitiche che veniva dedotta sul piano teorico "l'importanza e il ruolo di un moderno partito comunista che, libero dalle incrostazioni dello stalinismo, si proponga come organizzazione generale della classe lavoratrice e di tutti gli sfruttati".

Abbiamo quindi accertato sui tre interrogativi posti all'inizio le tre relative risposte: 1) il nuovo partito presuppone il superamento/liquidazione del PRC; 2) le forze potenziali interlocutrici di questi progetto non si sono sono ancora pronunciate in tal senso e sono comunque più ridotte di quelle che oggi si riconoscono nel PRC o nella Federazione della Sinistra; 3) il nuovo partito viene indicato come partito genericamente di classe e non come partito comunista.

Un altro aspetto interessante nella posizione di Falcemartello nell'VIII Congresso che costituisce una evoluzione abbastanza radicale rispetto alle tesi sostenute in precedenza (in particolare al VI Congresso) riguarda il rapporto col PD e la proposta del "polo della sinistra di classe".

Ricordiamo che Falcemartello fino al V Congresso faceva parte della corrente si sinistra guidata da Ferrando. Con il VI Congresso quell'area si frammenta e Falcemartello per la prima volta presenta una propria mozione congressuale. Fra i punti di dissenso tra FM e Ferrando ve ne sono in particolare due: il giudizio sui DS (successivamente confluiti nel PD) e l'obbiettivo di costituire il "polo autonomo di classe anticapitalista".

Falcemartello respingeva la tesi secondo cui i DS sarebbero stati un partito "borghese", richiamando tra l'altro i rapporti di questo partito con il movimento dei lavoratori ed in particolare con la CGIL. In proposito il documento congressuale per il VI Congresso affermava: "Gli avvenimenti degli ultimi anni smentiscono chi in passato parlava in modo unilaterale di svolta liberale, di sradicamento 'definitivo' di partiti quali i Ds o il Labour dal movimento operaio, confondendo la critica della politica dei loro dirigenti con la loro natura e il loro radicamento di classe".

A quel tempo la posizione di Falcemartello era assai più articolata di quanto non sia oggi e il gruppo criticava il settarismo e l'apoliticismo di Ferrando, mentre oggi in gran parte si trova a sostenere le stesse argomentazioni allora contestate.

In sintesi Falcemartello proponeva come tattica elettorale di praticare la desistenza nei confronti dei DS (considerato partito operaio) e di negarla ai candidati della Margherita (considerato centro borghese). All'opposizione all'alleanza con Prodi si contrapponeva la parola d'ordine di un governo di sinistra. Interessante l'argomentazione che veniva portata a sostenere tale posizione, citando come esempio la situazione spagnola (si era al momento della crisi che portò alla sconfitta elettorale della destra e all'elezione di Zapatero). In Spagna, scriveva allora Claudio Bellotti, leader di Falcemartello, "la questione di cacciare le destre si è posta improvvisamente di fronte alla classe lavoratrice come una questione urgente, bruciante e non rinviabile. In questo contesto, cosa avrebbero dovuto dire dei marxisti? Cacciamo Aznar e poi torniamo all'opposizione? E chi governerebbe? Una simile posizione sarebbe stata giustamente vista come completamente ridicola e inapplicabile".

Collegando la vicenda spagnola a quella italiana, Bellotti aggiungeva che "le masse non hanno alternative credibili e tenteranno una e più volte di far emergere la propria voglia di cambiamento attraverso le organizzazioni maggioritarie della sinistra. E' necessario pertanto che i comunisti elaborino una tattica e parole d'ordine adeguate anche su questo terreno, se non vogliono trovarsi completamente isolati dal movimento della classe." Vengono avanzate considerazioni che, pur all'interno dello schematismo ideologico tipico di questa corrente, si pongono comunque il tema della tattica, dello sbocco politico e degli orientamenti di massa, completamente assenti nella proposta attuale che risulta astratta e propagandistica.

Naturalmente la situazione odierna si è modificata da allora. Per Falcemartello il principale mutamento è determinato dalla nascita del PD. Nel documento del VII congresso si afferma apoditticamente che "Il Partito democratico è un nostro antagonista". La campagna elettorale del 2008 aveva "confermato in modo inequivocabile la natura compiutamente borghese del partito democratico". Quindi mentre i DS di Fassino e D'Alema erano un "partito operaio", Veltroni allora e Bersani oggi sono alla testa di un partito "inequivocabilmente borghese". E quindi non vi è più alcuna dialettica tra la politica dei dirigenti ed il radicamento di classe. L'analisi della trasformazione è piuttosto sommaria e mescola elementi superficiali e contingenti con dati strutturali. Non è questa la sede per una disamina complessiva della questione.

Per Falcemartello la natura operaia o borghese dei DS o del PD (per Ferrando erano già borghesi i DS) assume un valore discriminante, alla luce della tradizione trotskista che risale alla posizione ostile da parte del fondatore del movimento nei confronti dei Fronti popolari in quanto alleanze tra il movimento operaio e settori borghesi. A sua volta questa posizione rimanda al modello schematico di interpretazione dello sviluppo storico elaborato attorno al concetto di "rivoluzione permanente".

Al di là degli aspetti contingenti e tattici, alla base della posizione di Falcemartello vi è quindi il rifiuto di ogni forma di allenza con settori democratico-borghesi, posizione che distingue in modo sostanziale il movimento trotskista da quello comunista almeno dalla metà degli anni '30. In questo caso l'applicazione dello schema ideologico, una volta dichiarata la natura "borghese" del PD, rende impraticabile qualsiasi forma di alleanza e qui si ricade nella posizione di Ferrando che già dichiarava "borghesi" i DS.

Ciò che emerge nell'evoluzione di Falcemartello dal VI all'VIII congresso del PRC è da un lato uno spostamento del proprio investimento politico nella prospettiva di un superamento di Rifondazione, dall'altro  un ripiegamento settario che, al di là della relativamente facile raccolta di consensi sul terreno dell'ostilità al PD (in larga parte giustificata), risulta incapace di offrire una qualsiasi convincente strategia politica.

Franco Ferrari

domenica 30 ottobre 2011

Il vicolo cieco degli "incappucciati"

Gli scontri del 15 ottobre durante la manifestazione romana dei cosiddetti indignati hanno sollevato un polverone di commenti e di analisi. Al di là delle polemiche strumentali e delle valutazioni superficiali ci sono diverse questioni che vanno esaminate perché si collegano ai temi complessi della costruzione di una sinistra alternativa in Italia e, intrecciato a questo obbiettivo, a quello della costruzione di un articolato e pluralista movimento antiliberista di massa.


Lo scatenarsi della violenza da parte di una minoranza dei manifestanti confluiti a Roma e gli scontri molto duri con la polizia hanno condizionato la manifestazione, che pure ha avuto una forte partecipazione popolare e una grande presenza di giovani. Il primo punto che va chiarito riguarda la natura degli scontri. Abbiamo registrato l'effetto di una azione politica perseguita da gruppi frastagliati ma ben determinati o ad una forma di reazione spontanea effetto del "disagio sociale"?


Le analisi più precise ci indirizzano versa la prima ipotesi. Una serie di gruppi hanno puntato sulla trasformazione dell'appuntamento del 15 ottobre, da manifestazione pacifica a occasione di scontro con il "potere" rappresentato dalla polizia e dai carabinieri. E quindi occorre approfondire l'analisi politica piuttosto che nascondersi dietro vaghi sociologismi giustificatori.


I gruppi che hanno operato per trasformare la natura della manifestazione si collocano nell'ambito di tre filoni ideologici. Il primo è quello anarchico, anche se di un anarchismo diverso da quello tradizionale, dal quale pescano elementi di rifiuto della politica e della rappresentanza, forme organizzative relativamente acefale e una qualche tendenza al nichilismo sociale. Lo stesso movimento originario dei "Black Block" americani si collegano alla tradizione e alla ideologia anarchica. All'anarchismo e all'antiautoritarismo libertario si rifanno parte dei movimenti violenti greci, tra cui quelli che si sono recentemente scontrati duramente con il servizio d'ordine del PC Greco in Piazza Syntagma ad Atene.


Il secondo filone, probabilmente maggioritario, si ritrova in continuità con l'autonomia operaia degli anni '70, anche se questa area è in parte evoluta su posizioni meno primitive, che rifiutano l'esaltazione acritica della violenza, pur senza rinnegarla in toto, e si pongono il tema del rapporto con la politica ed il sindacato, come fa una parte dell'area dei centri sociali (Italia del nord-est, gruppi romani, ecc.). 


Infine si ritrova qualche organizzazione minore che si collega al maoismo radicale, ideologia che in parte aveva influenzato settori del terrorismo degli anni '70. Alcuni provengono dall'evoluzione di settori minoritari di quell'esperienza, sopravvissuti alla dura sconfitta che hanno subito, altri si sono sempre mossi in polemica che le ideologie combattentistiche del partito armato.


Questi gruppi, che nel complesso mi sembrano piuttosto poveri dal punto di vista dell'elaborazione ideologica e politica, si ritrovano attorno ad alcuni concetti piuttosto semplici che trovano una certa eco in settori minoritari ma non insignificanti del movimento anticapitalista ed antiliberista. Citerei in particolare i temi della rappresentanza e della violenza.


Viene teorizzato un rifiuto della rappresentanza che, estremizzato, diventa rifiuto della politica e della democrazia. Questa parola d'ordine, "nessuno ci rappresenta e nessuno ci può rappresentare", trova  spazio e si alimenta nella crisi delle tradizionali forme della rappresentanza politica e sociale. Siamo indubbiamente in presenza di una crisi della democrazia e di un evidente e crescente conflitto tra dinamiche del capitalismo liberista globalizzato e gli assetti democratici acquisiti, non definibili solo e riduttivamente come "borghesi", in quanto sono figli dell'azione decennale del movimento operaio e più in generale dei movimenti di trasformazione sociale. 


Nelle pratiche dell'estremismo la crisi della rappresentanza serve a motivare non solo un rifiuto della dialettica politica istituzionale ma anche un attacco diretto a tutte le forme di rappresentanza e di organizzazione, comprese ed a volte principalmente, le organizzazioni e le strutture del movimento anticapitalista ed antiliberista che si pongono invece in positivo il tema della rappresentanza e dell'azione politica. In questo senso l'azione svolta alla manifestazione del 15 ottobre era coerente con le premesse ed era quindi un attacco portato non al potere economico e finanziario ma a quelle forze che all'interno della manifestazione si ponevano sul terreno della relazione tra azione sociale e lotta politica. Bisognava far saltare la manifestazione come "passeggiata", la conclusione a Piazza San Giovanni come "passerella sul palco", e impedire il tentativo, vero o presunto, di saldare il movimento ad un progetto politico. Così come diventa coerente alle premesse il rifiuto ad accettare anche la democrazia nel movimento, rifiutando di accettare l'evidenza palese che la stragrande maggioranza dei manifestanti non era affatto favorevole alla trasformazione dell'appuntamento in rissa con le forze dell'ordine o al ricorso al teppismo come strumento di lotta. 


L'attacco alle dimensioni di massa del movimento antiliberista diventa funzionale all'offensiva dall'alto contro questo movimento ancora potenziale (od anche al desiderio di cooptarlo in forma subalterna) unitamente al tentativo di impedire che diventi fatto politico e non solo espressione di "disagio sociale". Fu in parte così anche negli anni '70 quando un ben più consistente movimento di massa, utilizzando anche gli indubbi errori del movimento operaio e comunista, favorì la ripresa di egemonia del capitale sancita con la sconfitta operaia alla FIAT dell'81.


L'altro tema caratterizzante del movimento degli incappucciati è quello dell'uso dello violenza. Il ragionamento è semplice e consiste nel sostenere che le manifestazioni pacifiche lasciano indifferente un potere sempre più lontano da qualsiasi forma di legittimazione democratica, e che solo la violenza diventa efficace. L'argomento va respinto ma non sottovalutato, di fronte alla crisi della democrazia che attraversa il nostro paese, anche se si tratta di una tendenza generale a molte società, che in Italia assume forme peculiari ma non esclusive.


Non credo che su questo tema ricorrente (il ruolo e la legittimità della violenza nell'azione politica) sia utile una discussione che contrapponga idee assolute violenza/nonviolenza, che rischia di diventare metastorica (cioè sottratta ad un contesto determinato) e quindi metafisica, per ragionare nel merito di quale violenza sia legittima e di quale relazione debba avere con i fini perseguiti. L'esperienza storica concreta del movimento operaio e dei movimenti di trasformazione sociale ci insegna alcune cose. 


Intanto che il ricorso alla violenza è sempre stato in larga parte difensivo e reattivo. Difendere un'occupazione di terre da parte di contadini o il diritto a manifestare da parte di operai che si battono contro i licenziamenti è cosa ben diversa dal ricercare a prescindere lo scontro con la polizia fine a sè stesso. Seguendo le immagini degli scontri di Piazza San Giovanni, nonostante alcuni comportamenti assurdi delle "forze dell'ordine" come i caroselli dei gipponi, la provocazione e l'offensiva sembrava pressoché interamente nelle mani degli "incappucciati". In questo tra l'altro risulta una netta differenza con quanto accadde a Genova.


Inoltre quelle conquiste democratiche e sociali che oggi stiamo faticosamente cercando di difendere (dalla giusta causa per i licenziamenti, alle tutele sociali che hanno garantito alcuni diritti fondamentali come quelli alla salute ed all'istruzione) sono il frutto di lunghe battaglie politiche e sociali, rimaste interamente sul terreno pacifico, anche in anni nei quali la polizia interveniva pesantemente contro ogni forma di contestazione sociale.


Difficile invece trovare una sola conquista democratica e sociale che possa essere portata all'attivo dei movimenti violenti e militaristi degli anni '70 o, andando molto più indietro nel tempo, delle sommosse di ispirazione bakuniniana degli anni della seconda metà dell'800, che pure in Italia avevano un certo seguito. Nella pratica estremista che si è espressa anche il 15 ottobre a Roma la violenza non è nemmeno strumento (sia pure sbagliato) per un fine, quanto scorciatoia alla quale si ricorre avendo la consapevolezza di essere incapaci di produrre qualsiasi pensiero strategico e progetto di trasformazione. 


L'analisi politica di quanto è avvenuto a Roma resta quindi prioritaria. Capire chi ha scelto e imposto il terreno dello scontro, per quali obbiettivi, a partire da quali premessi ideologiche, è una condizione non per giustificare ma per aprire una lotta politica ideale che impedisca a questi gruppi, pur marginali, di fare troppi danni e per conquistare settori giovanili, che altrimenti potrebbero infilarsi nuovamente in un vicolo cieco, ad un'altra e più convincente prospettiva di lotta politica e sociale. 


Poi occorre anche capire in quali settori, in quali ambienti questo progetto politico possa trovare consensi. Distinguendo però la realtà che va indagata, con l'autorappresentazione che questi stessi gruppi danno delle loro azioni, quella dei "giovani proletari arrabbiati che danno sfogo alla loro rabbia", ecc. ecc. Gli elementi che abbiamo finora (da Er Pelliccia in avanti) non sembrano affatto confermare questa mitologia romantica. Anche le dimensioni di massa sembrano per ora assai modeste. Lo attesta il fatto che questi gruppi non siano in grado di promuovere proprie mobilitazioni di massa, ma possano solo parassitare altri movimenti, come è stato a Roma o come succede a volte in Val di Susa.


Non credo nemmeno che gli eventi di Roma possano essere considerati un successo per loro al di là del clamore mediatico che hanno suscitato e della sconfitta temporanea indubbiamente imposta in quel momento al movimento di massa antiliberista. Il polverone mediatico è spesso illusorio, tanto esteso quanto superficiale e pronto ad essere archiviato da nuovi eventi altrettanto clamorosi (infatti il tema del 15 ottobre è già sparito dai giornali). La reazione molto forte che è emersa dalla grande maggioranza dei partecipanti alla manifestazione del 15 ottobre ha determinato un isolamento politico di questi gruppi costretti sulla difensiva anche per la palese stupidità di alcune azioni intraprese a Roma. Tanto è vero che pur essendo evidentemente preparate e organizzate non si trova nessuno pronto ad assumersene la paternità.


I gruppi degli incappucciati quindi vanno duramente isolati e combattuti, ma la loro azione mette anche in evidenza alcuni dei problemi che oggi le forze antiliberiste ed anticapitaliste hanno di fronte a sè per definire una strategia credibile che superi l'attuale dispersione e frammentazione e che sia all'altezza di una fase di crisi strutturale della democrazia e del capitalismo.

domenica 25 settembre 2011

Gli obbiettivi dell'Assemblea del 1° ottobre "Contro l'Europa delle banche"

Si terrà il 1° ottobre, all'Ambra Jovinelli di Roma, un'assemblea "autoconvocata" il cui tema recita: "contro l'Europa della banche, noi il debito non lo paghiamo". Il principale promotore dell'incontro è il dirigente della FIOM-CGIL Giorgio Cremaschi.

L'iniziativa si colloca in un contesto di permanente crisi della sinistra alternativa italiana e di frammentazione delle strategie e delle proposte politiche. Grosso modo l'area delle forze che si collocano a sinistra del PD può essere divisa, sulla base delle attuali opzioni di schieramento, in tre correnti. La prima è quella che si propone l'integrazione organica e strategica nel centrosinistra (Vendola e Sinistra e libertà in primis, ma con qualche tentazione che lambisce anche la Federazione della Sinistra); la seconda cerca l'autonomia strategica ma è favorevole ad un'alleanza democratica, almeno sul terreno elettorale (la maggioranza della FdS ed in particolare del PRC); la terza, infine, è quella contraria a qualsiasi alleanza anche solo elettorale col PD e persegue la costruzione di un polo autonomo che si collochi all'estrema sinistra dello schieramento politico (minoranze del PRC, piccoli gruppi come il PCL di Ferrando e il CSP di Rizzo).

Per quanto riguarda le due forze maggiori della Federazione della Sinistra, il PRC e il PdCI, verificheranno la loro adesione ad una ipotesi di alleanza tattica ed elettorale col PD finalizzata alla sconfitta dello schieramento di destra nelle prossime elezioni, nel corso dei congressi nazionali già convocati che si terranno entro l'anno.

In questo quadro ancora instabile, soprattutto per l'incerta evoluzione della situazione economica e politica, va colto il senso politico dell'assemblea del 1° ottobre, la cui direzione di marcia è definita in alcuni passaggi chiave del documento che la promuove, nei quali viene  sottolineata la sostanziale identità degli schieramenti di centrodestra e di centrosinistra. 
"Centrodestra e centrosinistra appaiono in radicale conflitto fra loro, ma condividono le scelte di fondo, dalla guerra, alla politica economica liberista, alla flessibilità del lavoro, alle grandi opere."
"Tutte e tutti coloro che in questi mesi hanno lottato per un cambiamento sociale, civile e democratico, per difendere l’ambiente e la salute devono trovare la forza di unirsi per costruire un’alternativa fondata sull’indipendenza politica e su un programma chiaramente alternativo a quanto sostenuto oggi sia dal centrodestra, sia dal centrosinistra."
"Non intendiamo mettere in discussione appartenenze di movimento, di organizzazione, di militanza sociale, civile o politica. Riteniamo però che occorra a tutti noi fare uno sforzo per mettere assieme le nostre forze e per costruire un fronte comune, sociale e politico che sia alternativo al governo unico delle banche."
Quindi l'obbiettivo politico centrale è quello di dar vita ad un "fronte sociale e politico"  alternativo al centrodestra e al centrosinistra. Quale sia la forma organizzativa di questo "fronte" non è chiarito dall'appello, anche se il richiamo al rispetto alle appartenenze attuali di coloro che partecipano all'iniziativa, lascia intendere che non sarà un partito in senso stretto. Resta ancora indeterminato se questo "fronte", una volta costituitosi, debba proporsi di presentarsi autonomamente anche sul terreno elettorale o restare nella forma di movimento esterno al momento elettivo che interagisce con le forze politiche esistenti.

Il documento ha raccolto finora poco meno di 1.600 firme, un dato tutt'altro che travolgente, anche confrontato con quello raggiunto da altri appelli circolati recentemente a sinistra (quello sulla "ricostruzione de partito comunista", in base al quale la corrente dell'Ernesto è traslocata dal PRC al PdCI, aveva raccolto, secondo i suoi promotori, quasi 2.000 firme).

Chi sono i sostenitori di questa iniziativa "terzista", oltre al già citato Cremaschi? Scorrendo l'elenco dei promotori e dei firmatari emerge la prevalenza di aderenti appartenenti alla CGIL,  collocati in tale organizzazioni a livelli diversi di responsabilità. Pochi però risultano i dirigenti anche nella stessa FIOM e tra questi alcuni aderiscono sulla base più della propria appartenenza politica che per espressione sindacale, anche quando questa appartenenza non figuri esplicitamente a fianco del loro nome.


Il primo dato che emerge è il seguito fortemente minoritario che l'assemblea del 1° ottobre può contare non solo nella CGIL nel suo complesso, ma anche nella minoranza di sinistra "La CGIL che vogliamo" e nella stessa FIOM di Cremaschi. Qui emerge anche una delle contraddizioni insite nell'iniziativa promossa da quadri e militanti della CGIL. Considerato che la CGIL è di gran lunga la più importante organizzazione di massa della sinistra, per numero di iscritti, insediamento sociale e dimensione dell'apparato, la sua collocazione ha un peso preminente nel consentire uno spazio politico e di consenso adeguato ad una iniziativa politica che si collochi fuori e contro il centrosinistra. Ed è fuor di dubbio che la CGIL sia organizzazione collaterale al centro-sinistra, in particolare al PD nella sua grande maggioranza, e alla sinistra interna al centro-sinistra di gran parte dei settori più avanzati (FIOM, parte di "CGIL che vogliamo").


La stessa sinistra CGIL  auspica che si affermi un nuovo possibile schieramento di governo che sostituisca la destra di Berlusconi e Bossi, con accentuazioni diverse sul piano dei contenuti politici che dovrebbero caratterizzare queste schieramento, ma sull'obbiettivo in sé converge con la maggioranza della Confederazione. Come si concilia la ricerca di un fronte che pone un segno di eguaglianza tra centro-sinistra e centro-destra con la permanenza all'interno della CGIL, cioè del principale organismo di massa che legittima il centro-sinistra agli occhi di milioni di lavoratori e di pensionati?. La risposta, immaginiano, è che la CGIL è un organismo complesso nella quale convivono il moderatismo subalterno della Camusso a migliaia di lavoratori e delegati molto più a sinistra, e quindi sarebbe settario liquidare la CGIL come organica al governo unico delle banche. Una simile considerazione, che ha un oggettivo fondamento e che respinge un atteggiamento settario, può valere nello stesso modo anche nell'approccio col centro-sinistra che non può essere settariamente identificato con le politiche perseguite dai dirigenti del PD.


Cercare di tenere i piedi i due scarpe, la CGIL dal lato sindacale, il fronte "terzista" sul terreno politico, presenta un elemento di contraddizione non facile da sciogliere per i promotori dell'assemblea del 1° ottobre. 


Questa iniziativa è sostenuta anche da alcuni gruppi politici, come emerge sia dalle adesioni (anche se quasi sempre viene occultata la caratterizzazione politica di questi firmatari) sia dalle prese di posizioni rintracciabili sui vari siti web. A favore dell'iniziativa di Cremaschi si sono schierati diversi gruppi trotzkisti sia interni che esterni a Rifondazione Comunista. Tra i secondi In particolare Sinistra critica (legata alla Quarta internazionale) che era uscita dal PRC cogliendo come pretesto l'espulsione di Turigliatto, ma finita sostanzialmente in un vicolo cieco politico. Dall'interno del PRC aderiscono Falcemartello, che persegue l'obbiettivo della costituzione del "partito di classe" o "partito dei lavoratori" con pezzi di FIOM e sinistra CGIL, settori del sindacalismo di base e di movimenti giovanili, e la più piccola Controcorrente (residuo della corrente ferrandiana dopo la scissione che ha portato alla nascita del PCL) per la quale è opportuno che dall'Assemblea escano "decisioni in grado di avere un’influenza immediata sul piano politico" per evitare il rischio di "sgonfiamento" del progetto.


Da tutt'altro versante ideologico viene il sostegno all'Assemblea da parte della "Rete dei Comunisti", la quale non ha e non pretende di avere un insediamento di massa, ma dispone di una certa influenza per il ruolo che svolge all'interno del principale sindacato di base, l'USB. E' probabile che nel coinvolgimento della Rete, pesi un valutazione di ordine sindacale, oltre che una condivisione di alcune posizioni di merito presenti nel documento di convocazione (in particolare l'appello "a non pagare il debito") e dell'ispirazione "terzista". E questa valutazione consiste in una strategia dell'attenzione verso quei settori di "estrema sinistra" presenti nella CGIL, in vista di una possibile loro uscita dalla confederazione della Camusso e di apertura al processo di allargamento del sindacato di base messo in piedi con la costituzione dell'USB (unificazione di RdB, SdL e settori CUB). 


Il documento che convoca l'Assemblea contiene anche 5 punti programmatici che meritano una discussione più approfondita che non però non può trovare spazio in questa nota. In particolare la parola d'ordine del non pagamento del debito pubblico andrebbe sottoposta ad una vaglio rigoroso, anche alla luce di altre proposte che circolano nella sinistra italiana ed europea.

venerdì 23 settembre 2011

Che cosa vuole la Cina?

La crisi economica globale ha reso ancora più rilevante il ruolo della Cina nell'ambito dell'assetto dei poteri globali, mentre stanno cambiando gli equilibri che si erano determinati dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Il gigante asiatico partecipa alle riunioni dei cosiddetti BRICS, i Paesi economicamente e politicamente in ascesa che cercano di influire , sull'evoluzione dello scenario mondialecollegandosi tra loro .

Il ruolo della Cina viene spesso raffigurato alla luce di schematismi prodotti in Occidente, ma poco attenti a quanto lo stesso gruppo dirigente viene affermando, presentandosi con prudenza ma con crescente determinazione, come potenza politica ed economica mondiale. Dopo una fase di demonizzazione nella quale la Cina era imputata di essere responsabile delle difficoltà di diversi settori produttivi delle economie capitalistiche più avanzate, ora viene vista come la possibile salvatrice del sistema economico globale, grazie alle ingenti risorse finanziarie accumulate per effetto di una consistente eccedenza della bilancia commerciale con gli Stati uniti e con altri Paesi.

Il punto di vista cinese è stato espresso nei giorni scorsi dal Primo ministro Wen Jiabao nel corso di un incontro del World Economic Forum che si è tenuto a Dalian. Il dirigente cinese ha colto l'occasione per richiamare, con grande lucidità mi sembra, sia le richieste cinesi all'occidente, sia gli obbiettivi che la Cina si pone nel suo percorso di sviluppo economico e sociale.

Per quanto riguarda l'Europea è già stato fatto notare che la Cina non ha affatto l'intenzione di risolvere la crisi dei "debiti sovrani" (al di sotto della quale vi è però una crisi sempre più radicale dell'interno meccanismo capitalistico neoliberista) con massicce iniezioni di denaro, correndo ad acquistare titoli di stato dei paesi in difficoltà. Il primo ministro cinese non esclude un maggiore intervento cinese nell'acquisire quote del debito europeo, ma lo vincola a due condizioni: la prima è che alla Cina venga riconosciuta, in anticipo rispetto ai tempi già previsti, la qualifica di economia di mercato e quindi di poter interagire in modo più libero e integrato con le economie capitalistiche europee; la seconda è che gli stati europei applichino politiche di rigore fiscale e di equilibrio dei bilanci. In questo senso non è certo da questi eventuali interventi cinesi che può venire un sostegno alla realizzazione di politiche alternative di rottura con il neoliberismo.

Anche agli Stati Uniti, la Cina propone una maggiore integrazione con una apertura agli investimenti cinesi, i quali, afferma Wen Jiabao, potrebbero consentire la creazione di molti posti di lavoro. La Cina aspira quindi a modificare il proprio ruolo di fornitore di beni di consumo a basso prezzo (e a volte anche di bassa qualità) a vero e proprio soggetto economico capace di gestire pezzi del sistema economico americano.

La Cina, anche qui contro l'idea di chi immagina una sorta di nuovo confronto tra blocchi, sul modello di quello che ha visto contrapporsi il mondo capitalistico, guidato dagli Stati Uniti e mondo socialista, guidato dall'Unione Sovietica, tra la fine degli anni '40 e la fine degli anni '80, ha ben chiaro che il proprio sviluppo nazionale avviene oggi attraverso una stretta connessione con il sistema capitalistico mondiale. 

I cinesi, consapevoli credo del fatto che una loro massiccia irruzione sulla scena politica, oltre che economica, internazionale, determinerebbe un rimescolamento degli equilibri mondiali, non privo di rischi di crisi e di conflitti (anche militari), si muovono con grande prudenza. La loro priorità è la crescita economica del loro paese, sulla base del principio-guida dell'armonia. Dopo gli anni dell'accelerazione allo sviluppo economico concentrato sulle zone speciali, che aveva creato consistenti disuguaglianze tra le varie aree del loro immenso paese, hanno corretto la rotta, cercando di trovare un (difficile) punto di equilibrio tra crescita economia ed equilibrio sociale. 

Gli obbiettivi che indica Wen Jiabao sono di due ordini. Innanzitutto ci si propone di modificare la qualità produttiva dell'economia, incorporando una massiccia dose di ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (ci si propone di investirvi il 2,2% del PIL cinese), in modo da non essere più solo identificati come il paese del "made in China", ma anche come un paese che produce innovazione e brevetti ed entra quindi in modo non subalterno nella gamma di prodotti di qualità.

Contemporaneamente ci si propone di mantenere una finalità distributiva alla produzione della ricchezza, finalizzandola alla parte più povera della società cinese, lasciando un po' al palo i settori sociali che già hanno migliorato in modo significativo la loro condizione di vita. In questo si può parlare, con la necessaria prudenza nel confrontare realtà così diverse, di una politica di tipo socialdemocratico classico. Da un lato si incentiva la crescita economia, che avviene secondo i principi del mercato capitalistico, al quale si attribuisce una maggiore efficienza, e dall'altra si opera un'azione di ripartizione delle ricchezze. Per ottenere questi due obbiettivi lo, Stato e quindi la politica (oggi pressoché disarmati in occidente dopo tre decenni di politiche neoliberiste), svolgono un ruolo centrale rispetto agli interessi economici privati.

Questo ruolo primario dello Stato pone inevitabilmente il tema della riforma politica. La posizione di Wen Jiabao (ma va tenuto presente che in Cina esiste un ricco dibattito sulle prospettive economiche e politiche, anche se questo coinvolge limitatamente la popolazione nel suo complesso) è che questa riforma vada portata avanti ma con la necessaria prudenza. Innanzitutto occorre garantire. lo stato di diritto, ovvero il rispetto delle leggi, contro ogni tipo di abuso e di corruzione. Poi deve essere sviluppato un maggior grado di decisione e di apertura anche dei meccanismi elettorali, a partire dai livelli locali. Queste forme di "autogoverno" andranno gradualmente estese.

Fuori da ogni semplicismo occorre comprendere l'enorme difficoltà e complessità dell'opera di far uscire un paese così grande dal sottosviluppo, con tutte le implicazioni anche ambientali che questo obbiettivo solleva. Sono evidenti anche le contraddizioni che emergono dallo sviluppo cinese, dalle condizioni di particolare sfruttamento in cui lavorano molti operai, alle misure repressive contro gli intellettuali indipendenti e contro alcuni settori sociali, i quali tendono ad ispirarsi al modello economico-politico occidentale e le cui voci vengono particolarmente enfatizzate sui media europei e americani.

La Cina, sulla base delle attuali scelte politiche del suo gruppo dirigente, non è certo destinata a guidare la riscossa della sinistra a livello internazionale (tanto meno un'improbabile resurrezione di un anacronistico "movimento comunista internazionale" di impronta cominternista), ma è indubbio che le forze di sinistra devono porsi il problema di quale possa essere l'influenza del gigante asiatico nelle politiche dei prossimi anni, nella prospettiva di un assetto mondiale pacifico e di maggiore giustizia sociale, il quale richiede una svolta radicale rispetto all'egemonia neoliberista. 

sabato 17 settembre 2011

La Danimarca svolta a sinistra

Le elezioni parlamentari in Danimarca, tenutesi pochi giorni fa, hanno segnato un'importante svolta politica, mettendo fine a dieci anni  di governo della destra e aprendo la strada ad una nuova coalizione di forze progressiste, tra le quali due partiti che si collocano a sinistra della socialdemocrazia.

Vediamo innanzitutto i dati. I quattro partiti di quella che viene definita come l'Alleanza Rossa, ovvero Socialdemocratici, Sinistra radicale, Socialisti popolari e Alleanza Rosso-Verde hanno ottenuto 89 seggi, con il 50,2% dei voti, contro gli 86 seggi assegnati ai quattro partiti della destra, l'Alleanza Blue, di cui fanno parte due partiti liberali, i Conservatori e il Partito del Popolo, di orientamento xenofobo. La sinistra potrà disporre di una maggioranza parlamentare un po' più agevole grazie all'apporto di almeno 3 parlamentari su 4 eletti nelle isole Far Oer e in Groenlandia (dove si conferma il grande successo dello Inuit Ataqatigiit, la sinistra alternativa eschimese, col 42,7%).

Il risultato era previsto dai sondaggi, i quali delineavano però un successo più netto delle forze di sinistra; resta comunque il fatto politico rilevante della fine della prevalenza della destra e della volontà di cambiamento espressa dagli elettori danesi. Al di là dei rapporti di forza fra i due schieramenti è importante sottolineare anche quanto emerge dal voto all'interno del centro-sinistra.

La socialdemocrazia non riesce a riconquistare il ruolo di primo partito politico del paese, che rimane nelle mani dei liberali del primo ministro uscente Rasmussen, e perde un seggio. Il principale alleato è il Partito Socialista Popolare, sorto alla fine degli anni '50 dalla scissione di una tendenza "revisionista" del Partito Comunista, che ha poi di fatto largamente soppiantato come punto di riferimento dell'elettorato critico della socialdemocrazia sul piano sociale e della politica estera, ed in particolare dell'inserimento della Danimarca nell'Unione Europea. I Socialisti popolari sembravano destinati fino a qualche tempo fa ad una forte ascesa elettorale, con i sondaggi che li proiettavano al 20% rispetto al 14% delle elezioni del 2007. Il risultato è stato invece un forte arretramento che ha portato il partito a scendere sotto il 10% e a perdere 7 seggi. E' probabile che su questo dato abbia pesato l'impressione di un eccessivo appiattimento sulla socialdemocrazia.

La vittoria del centro-sinistra è dovuta quindi non ai partiti che certamente costituiranno la futura coalizione di governo (socialdemocratici e socialisti popolari entrambi in calo) ma dai due partiti che si collocano ai margini della coalizione. Sul versante più moderato è il Radikale Venstre, un partito che rappresenta l'anima più progressista e aperta dello schieramento borghese, e che storicamente si è schierato con la socialdemocrazia. Questo partito, che guadagna 8 seggi, è fortemente ostile al populismo xenofobo del Partito del Popolo, ma ha posizioni economiche liberali e quindi potrebbe rappresentare un limite alla possibilità di imprimere un effettivo cambiamento nella politica economica danese, che già subisce i condizionamenti dell'Unione europea e del capitalismo finanziario internazionale.

L'altro vincitore indiscusso delle elezioni è il partito che raccoglie la sinistra alternativa, nonché membro a pieno titolo del Partito della Sinistra Europea, l'Alleanza Rosso-verde (o Lista Unitaria, Enhedslisten, come recita il suo nome ufficiale). L'Alleanza è nata alla fine degli anni '80 dalla convergenza di diversi piccoli partiti dell'estrema sinistra danese, in particolare il Partito Comunista e il Partito Socialista di Sinistra, che non avevano più la forza, singolarmente, di superare la soglia del 2% richiesta per entrare in parlamento. L'Alleanza si è dimostrata una iniziativa di relativo successo, riuscendo nel tempo a fondere le diverse appartenenze di provenienza, senza peraltro richiedere ai partiti promotori un atto di scioglimento formale. Ormai la gran parte degli iscritti all'Alleanza, circa 5.000, non proviene dai partiti originari.

L'Alleanza Rosso-verde ha ottenuto il 6,7%, contro il 2,2% delle precedenti elezioni, e il suo gruppo parlamentare passa da 4 a 12. Il partito è diretto da un organismo collettivo, ma la sua portavoce, la giovanissima (27 anni) Johanne Schmidt-Nielsen ha acquistato immediatamente una grande popolarità e ha dimostrato di saper svolgere il proprio ruolo con grande abilità e determinazione. Gli aneddoti riportati dalla stampa danese riferiscono che al primo dibattito televisivo tra leader dei partiti al quale si presentò, il rappresentante di un'altra forza politica, scambiandola per una assistente di studio, le chiese di portarle un caffé.

Nelle elezioni del 2007 l'Alleanza aveva attraversato una grave crisi, che la portò, col 2,2% a rischiare l'esclusione dal parlamento. La decisione di presentare una giovane donna musulmana velata, in sé coraggiosa, si rivelò controproducente, non tanto per la reazione di quella parte di elettorato influenzato dal clima xenofobo, che comunque non avrebbe votato l'Alleanza, quanto per l'allarme di una parte di suoi elettori per quella che sembrava una messa in discussione del principio della laicità e della separazione tra spazio pubblico e convinzioni religiose causata dall'aperta rivendicazione religiosa della candidata musulmana.

L'Alleanza, come ha già fatto in precedenti occasioni appoggerà dall'esterno il governo garantendogli una maggioranza, ma stavolta indubbiamente il positivo esito elettorale le consegna una maggiore responsabilità, e come si è già visto in diverse esperienze di altri paesi, la partecipazione al governo o ad una maggioranza da parte di forze della sinistra alternativa, nelle condizioni di crisi economica e di forte condizionamento esterno alle politiche nazionali attualmente esistenti, apre contraddizioni non facili da gestire.

Le elezioni danesi hanno avuto ovviamente al centro la crisi economica che ha colpito anche la Danimarca. Il centro-sinistra propone una politica di investimenti e di spese sociali che possano essere sostenute senza peggiorare la situazione del bilancio pubblico, bilancio che dopo essere stato addirittura in attivo è ora in deficit del 3,8%, dato superiore alla soglia prevista dall'impostazione monetarista dell'Unione Europea. Nelle elezioni del 2007 era stato soprattutto il tema dell'immigrazione a tenere banco e questo aveva favorito la destra più populista e becera.

Le precedenti vicende elettorali in Europa hanno però dimostrato che l'impatto della crisi non determina affatto in modo univoco uno spostamento a sinistra. Anzi, in questo senso la Danimarca, rappresenta una felice eccezione più che la norma. Si può solo auspicare che non resti isolata.

sabato 10 settembre 2011

Un'intervista a Zyuganov sulle prossime elezioni in Russia

Nel prossimo mese di dicembre gli elettori russi saranno chiamati ad eleggere il nuovo parlamento (Duma) e l'anno prossimo, in primavera, sceglieranno il Presidente della repubblica. Il partito dominante resta "Russia Unita" di Putin al quale viene pronosticata una netta vittoria con l'unica incertezza sulle sue dimensioni. Un limitato cambiamento nella situazione politica potrebbe derivare dalla perdita della maggioranza assoluta di cui oggi dispone. "Russia Unita" resta il partito del potere ed ha a disposizioni enormi risorse, oltre ad un largo controllo dei media. Putin, attualmente primo ministro dopo essere stato presidente della repubblica per due mandati, ha promosso attorno al suo partito la costituzione di un "Fronte popolare" che raccoglie altri gruppi e personalità di vario orientamento spesso attratti più dal richiamo del potere che da vere motivazioni politico-ideologiche. Del resto "Russia Unita" si richiama genericamente alla tradizione socialdemocratica e cristiano-democratica europea, con una buona dose di nazionalismo russo.

Le altre forze politiche che sicuramente entreranno nella Duma sono il Partito Comunista della Federazione Russa, guidato da Guennadi Zyuganov, e il Partito Liberaldemocratico, populista di estrema destra di Vladimir Zhirinovsky. Il Partito Comunista è accreditato di un 18% (contro il 12% del 2007). Secondo un politologo russo il suo elettorato sarebbe in parte cambiato: non più solo pensionati e nostalgici dell'Unione Sovietica ma anche nuovi gruppi di "scontenti", molti dei quali si avvicinano al partito. Più incerto il destino di "Una Russia Giusta" che è sorto per offrire un'alternativa di sinistra moderata ai comunisti, non senza l'appoggio sotterraneo del potere. Le previsioni lo collocano tra il 4 e il 6 per cento, a cavallo della soglia di sbarramento del 5% indispensabile per entrare in parlamento. Di fronte a questo rischio di emarginazione dal sistema politico, un dirigente del partito ha proposto la costituzione di un'alleanza con i comunisti, ma questi ultimi non sembrano interessati anche per i persistenti legami esistenti tra "Una Russia Giusta" ed il partito di Putin.

In vista delle elezioni parlamentari e di quelle presidenziali della prossima primavera, nelle quali presenteranno quasi certamente la candidatura di Zyuganov, i comunisti hanno creato a metà luglio il Corpo dei volontari del popolo, richiamandosi ad una vicenda della storia russa, quando nel '600 un analogo Corpo venne creato per liberare Mosca dagli occupanti polacchi. Secondo alcuni commenti critici della stampa, (in generale ostile ai comunisti quindi da prendere con una certa prudenza), il manifesto politico di questa coalizione, che raccoglie sulla carta 3 milioni e mezzo di aderenti, avrebbe un tono decisamente nazionalista e di accentuata caratterizzazione etnica. Il documento chiede tra l'altro di garantire un'eguale possibilità di rappresentanza dei cittadini di etnia russa nelle autorità di governo. Questa strategia servirebbe ad intercettare il crescente spirito nazionalista presente tra l'opinione pubblica russa e a togliere voti sia a "Russia Unita" che al Partito Liberal Democratico.



Il leader comunista Zyuganov ha illustrato la politica del partito in una lunga intervista al quotidiano Kommersant  (della quale è disponibile una traduzione in spagnolo). Le ultime elezioni regionali hanno permesso al PC di ottenere risultati positivi in diverse regioni, battendo il partito di Putin. Quest'ultimo, secondo Zyuganov, è "la forza dell'inerzia, ma di una inerzia che perde forza". Il Fronte di Putin "difende gli interessi delle urbanizzazioni di lusso della strada Rubliovo-Uspienskoye". 


In caso di un loro successo elettorale i comunisti propongono un "programma di modernizzazione socialista" pubblicato con un'edizione speciale della Pravda diffusa in 5 milioni copie. E' un programma che "include 11 programmi settoriali e dieci direttrici capaci di assicurare uno sviluppo sicuro al paese. Un programma di misure anticrisi di piena attualità, dato che continuiamo ad essere immersi nella crisi globale che si registra nel mondo dal 2008." La gente comincia ad avere paura ed a chiudersi in sé stessa, denuncia Zyuganov, mentre i comunisti lottano "per l'unione della gente, per la capacità del popolo di manifestare la propria creatività, per l'aumento dell'autocoscienza, per la fiducia in un futuro migliore".


Il punto chiave del programma dei comunisti sono le nazionalizzazioni del "settore dell'industria estrattiva di materie prime ed una serie di settori strategici", ferrovie, rete elettrica, oleodotti, le comunicazioni e il "complesso militare-industriale"; "sono questi settori dove lo stato deve detenere il pacchetto di controllo e determinare le politiche". In risposta ad una domanda che accusa il PC di voler tornerà alla proprietà statale come nell'Unione Sovietica, Zyuganov risponde che "nell'URSS certamente il 96% della proprietà era statale e questo è totalmente errato. Quando eravamo nel Gosplan (ministero della pianificazione) fissavamo il prezzo di un panino a Erevan e questa era una stupidaggine. La completa statalizzazione di tutto quello che c'è è la causa della sconfitta dell'URSS e del PCUS, per questo il nostro programma riconosce che il settore privato possa partecipare in tutte le sfere della produzione".


Un posizione critica nel confronti del PC della Federazione Russa è sostenuta da un'altra organizzazione comunista la cui influenza è molto più limitata, il Partito Comunista Operaio Russo - Partito Rivoluzionario del Comunisti il quale ha costituito un "Fronte Rosso". Secondo quanto dichiarato dal segretario di questo partito, Viktor Tyulkin, la politica del PC di Zyuganov rappresenta "un classico movimento di opposizione democratica moderata, all'interno dei limiti del sistema esistente, nel quale la propaganda è principalmente rivolta al sentimento nazional-patriottico dell'opinione pubblica". Il Corpo dei Volontari promosso dal PC della Federazione Russa non ha un "sufficiente contenuto di classe". Il PC Operaio non è riconosciuto ufficialmente come partito titolato a presentarsi alle elezioni parlamentari e dalla intervista, pur con le decise differenze strategiche nel confronti del PC della Federazione Russa espresse da Tyulkin, sembra interessato a presentare propri candidati nelle sue liste, come già avvenuto in passato.

domenica 28 agosto 2011

La sinistra araba quasi interamente schierata con la rivolta anti-Gheddafi

Disegno tratto dal sito dell'FPLP
L'improvvisa caduta di Tripoli ha accelerato l'evoluzione della guerra civile libica e ha suscitato, come logico, numerosi commenti e prese di posizione nella sinistra internazionale, confermando però quella netta divaricazione di schieramento che ha attraversato le diverse componenti ideologiche. Differenze si erano registrate fin dall'inizio all'interno della sinistra europea, determinando un'articolazione di posizioni nel gruppo parlamentare europeo sul voto che in sostanza dava il via libera ad un intervento internazionale di imposizione della no-fly zone. 

Una parte della sinistra ha giudicato legittimo un intervento che impedisse al regime di Gheddafi di schiacciare con la forza la ribellione che aveva il suo centro nella città di Bengazi. Orientamento che, contrariamente alle polemiche strumentali alimentate in particolare dai comunisti greci, ha attraversato i diversi partiti e schieramenti e non attribuibile al Partito della Sinistra Europea, che ha invece preso nettamente posizione contro l'intervento militare. Tra i principali intellettuali dello schieramento antimperialista che hanno argomentato la legittimità di sostenere l'imposizione della no-fly zone va ricordato Gilbert Achcar, di origine libanese e per diversi anni, con lo pseudonimo di Salah Jaber, dirigente della Quarta Internazionale ed esperto di Medio Oriente.

Le prese di posizione contro l'estensione della guerra ed il possibile coinvolgimento diretto delle potenze occidentali con proprie forze militari sul terreno (ipotesi che era stata oggetto dell'allarme lanciato da Fidel Castro già all'inizio della rivolta) avevano determinato una larga convergenza, pur in assenza di  un significativo  movimento contro la guerra. Gli sviluppi degli ultimi giorni hanno invece riaperto una radicale divergenza nel giudizio sugli avvenimenti. 

La sinistra latino-americana, con in testa Hugo Chavez, ha via via assunto una linea sempre più favorevole a Gheddafi e ostile alla ribellione, considerata in pratica un semplice strumento al servizio delle politiche interventiste di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. La sinistra europea ha visto riemergere alcune delle differenze iniziali, con un appiattimento di una parte delle componenti più nettamente ostili alla guerra sulla difesa di fatto del regime di Gheddafi.

In questo quadro risulta interessante quanto emerge dall'esame delle posizioni della sinistra araba (comunista ed non), che si trova invece quasi interamente schierata dalla parte della rivolta e dichiara il proprio appoggio al popolo fratello libico per essere riuscito ad abbattere il tiranno. A mia conoscenza, l'unica forza significativa che si è schierata a sostegno di Gheddafi è quanto resta ed opera nella clandestinità del partito Baath iracheno di Saddam Hussein. Nessuna mobilitazione di piazza è avvenuta in Medio Oriente a sostegno del regime libico a conferma del discredito e dell'isolamento in cui si è collocato per le sue scelte avventuriste e opportuniste compiute nel corso degli anni, chi pure nei primi anni del regime si era proposto l'ambizioso obbiettivo di essere l'erede di Nasser quale alfiere dell'unità araba. 

Nemmeno quegli attori politici, non di sinistra, ma che si trovano in prima linea nello scontro con le potenze occidentali, come l'Hezbollah libanese o il governo iraniano, hanno sollevato una parola di difesa a favore di Gheddafi. Nonostante l'intervento occidentale, essi hanno considerato prioritario l'appoggio alla rivolta. 

Venendo al quadro delle forze di sinistra si possono richiamare le seguenti prese di posizione già disponibili sui rispettivi siti internet:

Partito Comunista Sudanese: i comunisti sudanesi hanno celebrato la "caduta del tiranno e la sua consegna al cestino della spazzatura della storia" e hanno rivolto calorose congratulazione all'eroico popolo libico, indicando come obbiettivo la costruzione di un regime democratico, che non rappresenti una continuità mascherata col passato. La posizione del PC Sudanese è sicuramente motivata anche dal ruolo che Gheddafi ebbe nel 1971, nel favorire un contro-colpo di stato di Nimeiri in Sudan che determinò una feroce repressione nei confronti dei comunisti. Il sito del PC Sudanese riporta una lettera di sostegno al popolo libico dei famigliari di Babiker Al-Nur Osman che fu per pochi giorni leader rivoluzionario del Sudan, vicino ai comunisti, ma al suo ritorno da Londra dove si trovava in esilio, venne intercettato dai militari libici e consegnato a Nimeiri che lo fece giustiziare.

Partito del Progresso e del Socialismo (Marocco): Il quotidiano del partito Albayane critica il governo algerino di Bouteflika per aver mantenuto un atteggiamento estremamente ambiguo nei confronti della ribellione e per non aver riconosciuto il Consiglio Nazionale di Transizione di Bengazi. Anche nel caso del Marocco pesa nei confronti di Gheddafi un contenzioso locale relativo al Sahara occidentale, occupato dal Marocco, ma che viene rivendicato come territorio marocchino anche da gran parte della sinistra. Al Bayane denuncia la presunta presenza di qualche centinaio di militanti del Fronte Polisario schierati a sostegno di Gheddafi, accusando la Libia di aver favorito questa presenza, dati i tradizionali rapporti esistenti tra sarahui e governo algerino.

Partito Comunista Operaio Tunisino: Il  PCOT, da poco diventato legale a seguito della caduta del regime di Ben Ali,  ha anch'esso salutato la caduta del tiranno Gheddafi. Oltre al sostegno al popolo libico e alla ribellione, il PCOT mette in guardia dalle intenzione neocoloniali della NATO e dell'Occidente.

Movimento Ettajdid (ex PC Tunisino). Anche l'altro principale partito della sinistra tunisina, l'Ettajdid, evoluzione post-comunista del PC filosovietico, ha salutato la vittoria della ribellione libica, passo necessario verso un percorso di democratizzazione.

Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP): la maggiore delle organizzazioni della sinistra radicale palestinese ha sostenuto dall'inizio la rivolta contro Gheddafi ed ha confermato anche in questi giorni, pur con un comunicato più misurato nei toni il proprio sostegno alla lotta dei libici contro la dittatura.

Front des Forces Socialistes (Algeria). in questa selezione rappresentativa di varie correnti è opportuno richiamare anche la presa di posizione dell'FFS, importante partito algerino, vicino alla socialdemocrazia internazionale, il cui comunicato pubblicato qualche giorno fa si intitola "la prossima caduta del regime di Gheddafi è una buona notizia per tutti i militanti della libertà e della democrazia nel mondo".

Forum Progressista del Bahrain: il Forum costituisce il fronte legale nel quale operano i comunisti e altri militanti di sinistra del Bahrain, impegnati in una battaglia democratica, che, in questo caso, non gode del sostegno della cosiddetta "comunità internazionale". In un comunicato del 24 agosto il Forum conferma il suo sostegno alla lotta dei popoli fratelli dello Yemen, della Siria e della Libia contro la sanguinosa repressione messa in atto dai rispettivi regimi.

Non è detto ovviamente che la posizione della sinistra e dei comunisti arabi sulla vicenda libica, sia necessariamente corretta, credo però che sarebbe utile dal punto di vista della sinistra europea e internazionale confrontarsi con queste posizioni e capirne le ragioni, che invece vengono in larga misura ignorate e censurate. Questo confronto non impedirebbe alla sinistra europea prese di posizione nette contro gli appetiti neocoloniali dei propri Paesi, ma avrebbe favorito la ricerca di una più larga una convergenza e di una minima unità d'azione della sinistra internazionale ed in particolare tra quella europea e mediorientale.

Ps. per leggere i testi in arabo ho utilizzato il traduttore automatico di Google in inglese, in quanto quello in italiano, pur disponibile, è meno preciso.

mercoledì 24 agosto 2011

La crisi spagnola e la posizione di Izquierda Unida

La crisi economica spagnola si è aggravata e si è trasformata in una crisi politica che ha già causato la fine del ciclo politico aperto con l'elezione del leader socialista Zapatero, la convocazione di elezioni anticipate e il probabile ritorno della destra al governo del Paese. Un fatto politico nuovo è stato l'irruzione sulla scena del movimento degli "indignati" che ha occupato le piazze delle principali città spagnole con la rivendicazione di una "vera democrazia" e di un mutamento delle politiche sociali neoliberiste che sono la causa dell'attuale crisi.

In questa situazione che presenta elementi di novità ma anche di permanente difficoltà e debolezza dei movimenti di lotta, Izquierda Unida, la coalizione della sinistra anticapitalista di cui fa parte il Partito Comunista Spagnolo, cerca di uscire dalla crisi che l'ha travagliata profondamente negli ultimi anni.



Il suo leader Cayo Lara, militante comunista, ha cercato di ricollocarla su un versante di maggiore conflittualità politica e sociale dopo una periodo nel quale è sembrata appiattirsi troppo sul Partito Socialista. Inoltre ha lavorato per superare la continua conflittualità interna che aveva portato a laceranti contrapposizioni minandone la credibilità esterna, soprattutto nei confronti dei movimenti di lotta politica e sociale. Con il consenso di quasi il 90% della Presidenza Esecutiva Federale di IU, Cayo Lara è stato nominato candidato della coalizione alla Presidenza del Governo nella prossima scadenza elettorale.


Il punto di vista di IU sull'attuale situazione è stato illustrato da Cayo Lara in un'ampia intervista rilasciata al mensile del Partito Comunista, Mundo Obrero. Innanzitutto, Lara ha espresso una valutazione moderatamente positiva delle recenti elezioni amministrative che hanno fatto registrare una crescita di circa 200.000 voti da parte della coalizione di sinistra, anche se questo rappresenta un recupero molto parziale del milione e mezzo di voti persi dai socialisti del PSOE. Il dopo elezioni è stato animato da una polemica sollevata dai socialisti e largamente ripresa dai media a loro vicini, sui mancati accordi tra IU e PSOE nelle amministrazioni locali che hanno aperto la strada al Partito popolare. Lara ricorda che si è trattato di situazioni marginali non superiori a quelle nelle quali lo stesso PSOE ha realizzato accordi con la destra quando invece poteva scegliere la strada dell'alleanza a sinistra.


Questa polemica largamente infondata, denuncia Lara, è stata sollevata dai socialisti in funzione della prossima campagna elettorale e ricorda quella lanciata anni fa sulla cosiddetta "pinza", che ebbe come protagonista soprattutto il quotidiano El Pais (equivalente spagnolo della nostra Repubblica), ovvero una presunta convergenza tra sinistra e Partito popolare in funzione anti-socialista. Va detto che in quel caso la stessa politica di IU, non priva di cadute nel settarismo, lascio un certo spazio all'offensiva mediatica dei media del gruppo PRISA, che ai socialisti dell'allora primo ministro Felipe Gonzales era molto vicino. Naturalmente l'obbiettivo è di far scattare in funzione anti IU, il meccanismo del cosiddetto "voto utile".

Nella sua intervista Cayo Lara, oltre a smentire l'esistenza di questa convergenza con la destra denuncia semmai che è il PSOE a perseguire di fatto una politica economica e sociale di impronta neo-liberista largamente convergente con quella della destra, sia in Spagna che a livello europeo. Così come, denuncia Izquierda Unida, la convergenza tra socialisti e destra nel mantenere un sistema elettorale che discrimina fortemente la sinistra, riducendone drasticamente la rappresentanza parlamentare, ridotta a due soli parlamentari, quando un sistema di tipo proporzionale non artificialmente alterato garantirebbe con gli stessi voti 14 parlamentari. Come avviene in Italia, IU viene esclusa aprioristicamente anche dai grandi mezzi di comunicazione, impedendole così di far arrivare il proprio messaggio ai cittadini.

Per quanto riguarda il "movimento 15M", ovvero degli "indignati", Cayo Lara ricorda che i suoi obbiettivi sono largamente convergenti con quelli di Izquierda unida e che militanti di IU sono impegnati al suo interno. Esistono però anche problemi di rapporti in quanto una parte del "movimento 15M" tende a criticare indistintamente tutte le forze politiche, e questo ha portato a delle difficoltà, in alcune situazioni, anche nella comune battaglia per difendere coloro che che sono vittime di sfratto. Una condizione che per effetto della crisi riguarda un numero crescente di persone.

Un gruppo di personalità ed intellettuali spagnoli, tra cui Baltazar Garzon, Pedro Almodovar, Almudena Grandes, e Pilar Bardem, ha diffuso recentemente un appello per una "Nuova Sinistra". Si tratta di un testo molto breve e abbastanza generico che rivendica la necessità di "ricostruire il presente della sinistra". Se è evidente la critica al PSOE per aver abbandonato contenuti e idee della sinistra, dall'altra però si ritiene insufficiente anche l'attuale sinistra alternativa e quindi lo stesso ruolo di Izquierda Unida. Ai contenuti dell'appello Cayo Lara contrappone il ruolo di Izquierda Unida quale movimento politico e sociale che può raggruppare tutta la gente che abbia una sensibilità di sinistra e che voglia  contribuire a forgiare un movimento anticapitalista. IU può convergere con tutti coloro che aspirano a lavorare per una alternativa di sinistra alle politiche neoliberali che hanno abbracciato tanto il PSOE che il PP. 

Il processo unitario, precisa Cayo Lara, può persò solo avvenire dal basso verso l'alto avendo come priorità il confronto nella società. Con questo obbiettivo IU ha promosso una "Convocatoria Social", definita come "processo partecipativo per un nuovo programma politico di sinistra".