venerdì 23 settembre 2011

Che cosa vuole la Cina?

La crisi economica globale ha reso ancora più rilevante il ruolo della Cina nell'ambito dell'assetto dei poteri globali, mentre stanno cambiando gli equilibri che si erano determinati dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Il gigante asiatico partecipa alle riunioni dei cosiddetti BRICS, i Paesi economicamente e politicamente in ascesa che cercano di influire , sull'evoluzione dello scenario mondialecollegandosi tra loro .

Il ruolo della Cina viene spesso raffigurato alla luce di schematismi prodotti in Occidente, ma poco attenti a quanto lo stesso gruppo dirigente viene affermando, presentandosi con prudenza ma con crescente determinazione, come potenza politica ed economica mondiale. Dopo una fase di demonizzazione nella quale la Cina era imputata di essere responsabile delle difficoltà di diversi settori produttivi delle economie capitalistiche più avanzate, ora viene vista come la possibile salvatrice del sistema economico globale, grazie alle ingenti risorse finanziarie accumulate per effetto di una consistente eccedenza della bilancia commerciale con gli Stati uniti e con altri Paesi.

Il punto di vista cinese è stato espresso nei giorni scorsi dal Primo ministro Wen Jiabao nel corso di un incontro del World Economic Forum che si è tenuto a Dalian. Il dirigente cinese ha colto l'occasione per richiamare, con grande lucidità mi sembra, sia le richieste cinesi all'occidente, sia gli obbiettivi che la Cina si pone nel suo percorso di sviluppo economico e sociale.

Per quanto riguarda l'Europea è già stato fatto notare che la Cina non ha affatto l'intenzione di risolvere la crisi dei "debiti sovrani" (al di sotto della quale vi è però una crisi sempre più radicale dell'interno meccanismo capitalistico neoliberista) con massicce iniezioni di denaro, correndo ad acquistare titoli di stato dei paesi in difficoltà. Il primo ministro cinese non esclude un maggiore intervento cinese nell'acquisire quote del debito europeo, ma lo vincola a due condizioni: la prima è che alla Cina venga riconosciuta, in anticipo rispetto ai tempi già previsti, la qualifica di economia di mercato e quindi di poter interagire in modo più libero e integrato con le economie capitalistiche europee; la seconda è che gli stati europei applichino politiche di rigore fiscale e di equilibrio dei bilanci. In questo senso non è certo da questi eventuali interventi cinesi che può venire un sostegno alla realizzazione di politiche alternative di rottura con il neoliberismo.

Anche agli Stati Uniti, la Cina propone una maggiore integrazione con una apertura agli investimenti cinesi, i quali, afferma Wen Jiabao, potrebbero consentire la creazione di molti posti di lavoro. La Cina aspira quindi a modificare il proprio ruolo di fornitore di beni di consumo a basso prezzo (e a volte anche di bassa qualità) a vero e proprio soggetto economico capace di gestire pezzi del sistema economico americano.

La Cina, anche qui contro l'idea di chi immagina una sorta di nuovo confronto tra blocchi, sul modello di quello che ha visto contrapporsi il mondo capitalistico, guidato dagli Stati Uniti e mondo socialista, guidato dall'Unione Sovietica, tra la fine degli anni '40 e la fine degli anni '80, ha ben chiaro che il proprio sviluppo nazionale avviene oggi attraverso una stretta connessione con il sistema capitalistico mondiale. 

I cinesi, consapevoli credo del fatto che una loro massiccia irruzione sulla scena politica, oltre che economica, internazionale, determinerebbe un rimescolamento degli equilibri mondiali, non privo di rischi di crisi e di conflitti (anche militari), si muovono con grande prudenza. La loro priorità è la crescita economica del loro paese, sulla base del principio-guida dell'armonia. Dopo gli anni dell'accelerazione allo sviluppo economico concentrato sulle zone speciali, che aveva creato consistenti disuguaglianze tra le varie aree del loro immenso paese, hanno corretto la rotta, cercando di trovare un (difficile) punto di equilibrio tra crescita economia ed equilibrio sociale. 

Gli obbiettivi che indica Wen Jiabao sono di due ordini. Innanzitutto ci si propone di modificare la qualità produttiva dell'economia, incorporando una massiccia dose di ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (ci si propone di investirvi il 2,2% del PIL cinese), in modo da non essere più solo identificati come il paese del "made in China", ma anche come un paese che produce innovazione e brevetti ed entra quindi in modo non subalterno nella gamma di prodotti di qualità.

Contemporaneamente ci si propone di mantenere una finalità distributiva alla produzione della ricchezza, finalizzandola alla parte più povera della società cinese, lasciando un po' al palo i settori sociali che già hanno migliorato in modo significativo la loro condizione di vita. In questo si può parlare, con la necessaria prudenza nel confrontare realtà così diverse, di una politica di tipo socialdemocratico classico. Da un lato si incentiva la crescita economia, che avviene secondo i principi del mercato capitalistico, al quale si attribuisce una maggiore efficienza, e dall'altra si opera un'azione di ripartizione delle ricchezze. Per ottenere questi due obbiettivi lo, Stato e quindi la politica (oggi pressoché disarmati in occidente dopo tre decenni di politiche neoliberiste), svolgono un ruolo centrale rispetto agli interessi economici privati.

Questo ruolo primario dello Stato pone inevitabilmente il tema della riforma politica. La posizione di Wen Jiabao (ma va tenuto presente che in Cina esiste un ricco dibattito sulle prospettive economiche e politiche, anche se questo coinvolge limitatamente la popolazione nel suo complesso) è che questa riforma vada portata avanti ma con la necessaria prudenza. Innanzitutto occorre garantire. lo stato di diritto, ovvero il rispetto delle leggi, contro ogni tipo di abuso e di corruzione. Poi deve essere sviluppato un maggior grado di decisione e di apertura anche dei meccanismi elettorali, a partire dai livelli locali. Queste forme di "autogoverno" andranno gradualmente estese.

Fuori da ogni semplicismo occorre comprendere l'enorme difficoltà e complessità dell'opera di far uscire un paese così grande dal sottosviluppo, con tutte le implicazioni anche ambientali che questo obbiettivo solleva. Sono evidenti anche le contraddizioni che emergono dallo sviluppo cinese, dalle condizioni di particolare sfruttamento in cui lavorano molti operai, alle misure repressive contro gli intellettuali indipendenti e contro alcuni settori sociali, i quali tendono ad ispirarsi al modello economico-politico occidentale e le cui voci vengono particolarmente enfatizzate sui media europei e americani.

La Cina, sulla base delle attuali scelte politiche del suo gruppo dirigente, non è certo destinata a guidare la riscossa della sinistra a livello internazionale (tanto meno un'improbabile resurrezione di un anacronistico "movimento comunista internazionale" di impronta cominternista), ma è indubbio che le forze di sinistra devono porsi il problema di quale possa essere l'influenza del gigante asiatico nelle politiche dei prossimi anni, nella prospettiva di un assetto mondiale pacifico e di maggiore giustizia sociale, il quale richiede una svolta radicale rispetto all'egemonia neoliberista. 

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