domenica 18 maggio 2014

La sinistra italiana ha bisogno di una “Grand Strategy”?


Nel novembre del 2011 la National Defence University (NDU), l’ateneo finanziato dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ha organizzato una conferenza il cui tema era, in sostanza, il seguente: l’America ha bisogno di una “grande strategia”?. Al convegno partecipavano un certo numero di quelli che si potrebbero definire, usando la formula gramsciana, come gli “intellettuali organici” dell’establishment politico-militare degli Stati Uniti. Un volume che raccoglie alcuni degli interventi è stato pubblicato nell’ottobre scorso sul sito dello Strategic Studies Institute

Che cosa si intende per “grande strategia”? Le risposte fornite nelle relazioni sono in parte diverse. Secondo la Dott.ssa Anne-Marie Slaughter, che ha svolto la funzione di direttrice della “pianificazione politica” del Dipartimento di Stato, la “grande strategia” o, come lei preferisce definirla, la “narrazione strategica nazionale” è necessaria come guida per il futuro. Secondo la Slaughter “noi abbiamo bisogno di una storia che abbia un inizio, un intermezzo e una previsione di lieto fine che trascenda le nostre divisioni politiche, ci orienti come nazione e ci fornisca sia una direzione comune che la fiducia e l’impegno per condurci alla nostra destinazione”. Un altro relatore, il professor Leon S. Fuerth, fornisce una diversa definizione del concetto. Una strategia è un “piano per imporre un esito predeterminato ad un sistema complesso”.



Secondo la curatrice del volume, la dott.ssa Sheila R. Ronis, nel corso della storia le “grandi strategie” si sono modificate in relazione alla crescita di complessità del mondo. E’ quindi probabile che una grande strategia che si voglia realizzare nel 21° secolo sia molto differente rispetto ai modelli del passato perché si è modificata la nostra comprensione del modo in cui i sistemi complessi, tra cui le nazioni, si comportano. Secondo la Ronis il Governo degli Stati Uniti, negli ultimi anni, ha prodotto una pletora di piani strategici che hanno riguardato soprattutto aspetti relativi alla sicurezza. Il più importante di tali documenti è il “National Security Strategy” ma, è il rilievo che avanza la Ronis, non è sufficientemente a lungo termine né si tratta di un vero piano strategico che colleghi le risorse con gli obbiettivi lungo una sequenza temporale.

La curatrice definisce alcuni dei temi che andrebbero approfonditi e che sono oggetto del convegno: che cos’è una “grande strategia”? quali lezioni offre la storia? una “grande strategia” è possibile in un mondo complesso e attraversato da molte divisioni politiche come l’attuale? qual è il ruolo della previsione strategica nello sviluppare ed implementare la “grande strategia”? come possiamo educare i leaders politici attuali e futuri a pensare strategicamente?

Tornando al Prof. Fuerth, un accademico che è stato titolare di ruoli politici influenti, egli chiarisce quelli che secondo lui sono alcune delle caratteristiche necessarie di un “grande strategia”. Deve essere comprensiva, ovvero risolvere una serie di problemi, deve avere una durata sufficiente per poter arrivare al completamento, non deve essere suscettibile di un fallimento disastroso, nel momento inevitabile nel quale dovrà confrontarsi con eventi e condizioni non previste nelle sue premesse.

La grande strategia, non è solo la somma di parti specifiche, deve inglobare una serie di possibili azioni: dalla manovra alla tattica, alla battaglia, alla campagna (in senso militare) e così via. Occorre prevedere che intervenendo su sistemi complessi una strategia che abbia successo non finirà comunque in una marcia trionfale ma semplicemente porterà ad una nuova e diversa serie di problemi. Un altro elemento che aggiunge il Prof. Fuerth è che la “grande strategia” è una “narrazione” ( e qui torna l’elemento presente nella definizione della Slaughter) che deve essere condivisa da chi guida e da chi è guidato. Ma non tutte le narrazioni sono strategie, a volte si tratta solo di favole  (“fairy tales”) mascherate da grandi strategie.
Ancora, aggiunge Fuerth, non ci può essere una “grande strategia” senza la capacità di mantenere un comportamento strategico, non ci può essere comportamento strategico senza previsione, e non ci può esse previsione senza la capacità di riferirsi ai fatti come si materializzano piuttosto che ai fatti come erano immaginati.

Raccolti questi che sono soli spunti per la discussione, la domanda che segue è: che c’entra tutto questo con lo stato della sinistra italiana? I partecipanti al dibattito della National Defence University, hanno un obbiettivo che è molto lontano dal nostro: mantenere intatto il predominio americano nel mondo e garantire che il modello politico, istituzionale ed economico che ha permesso agli Stati Uniti di diventare la maggiore potenza mondiale nel corso del 20° secolo, diventi il parametro al quale tutto il resto del mondo deve adeguarsi.

Ma questo non toglie che la definizione di una “grande strategia” sia un’esigenza che si pone, ovviamente in termini e condizioni diverse, anche per la sinistra italiana.  E che alcune delle indicazioni di metodo che emergono dal dibattito degli strateghi degli Stati uniti possano essere la base per un salto di qualità nel nostro dibattito.

Se guardiamo alla storia italiana del dopoguerra si può affermare che vi siano state principalmente due “grandi strategie” che possono rientrare in questa definizione, entrambe formulate dal gruppo dirigente del PCI in momenti successivi: la “democrazia progressiva” e la “via italiana al socialismo”. La prima ha guidato il partito anche in condizioni molto diverse (il passaggio drammatico dall’unità antifascista alla guerra fredda) fino alla metà degli anni ’50. La seconda vi è subentrata dal ’56 come riformulazione della precedente tenendo conto degli effetti della destalinizzazione in URSS e delle contraddizioni del blocco socialista. Si può dire che successivamente, durante la direzione di Berlinguer, si sono susseguite strategie diverse e in parte contraddittorie (compromesso storico e alternativa democratica) che non hanno avuto per ragioni soggettive ed oggettive la stessa coerenza.

Dopo il crollo del campo socialista e lo scioglimento del PCI, la sinistra italiana non è ancora riuscita a formulare una “grand strategy” così come viene definita dai teorici americani. Da un lato l’evoluzione (o involuzione) verso il Partito Democratico ha visto un radicale mutamento dei fini della componente di derivazione ex-PCI: dalla critica al capitalismo all’integrazione nel capitalismo liberista, con diversi gradi di adattamento ideologico. Renzi, a differenza delle direzioni precedenti del PD che cercavano di sostituire la debolezza strategica con l’antiberlusconismo, ha (o almeno vuol far credere di avere) un indirizzo strategico  che, depurato dalla demagogia e da un discreto tasso di ciarlataneria, sostanzialmente è questo: l’Italia deve ammodernarsi per partecipare alla competizione globale così come definita dal capitalismo finanziario e globalizzato. Le scelte fondamentali che sono alla base di questo ammodernamento sono quelle predicate negli ultimi decenni dal pensiero unico: privatizzazioni, flessibilità del lavoro, riduzione della spesa pubblica, esaltazione del mercato, della concorrenza e della competizione come principi sociali assoluti ed efficienti, centralizzazione della decisione politica nelle mani dell’unico al potere, titolare di una delega plebiscitaria. 

Le possibilità di successo di questa strategia derivano principalmente dalla capacità del capitalismo di riprendere una certa marcia verso lo sviluppo economico e, più in specifico, del capitalismo italiano di inserirsi in questa ripresa. Un capitalismo destinato comunque ad essere subalterno sul piano europeo e mondiale (come dimostra la progressiva svendita di tante imprese tricolori a compratori esteri) ma in grado di intercettare una certa quota di ricchezza che vada almeno a favore di una fascia di popolazione medio-alta (in termini di reddito).

Non mi interessa qui discutere la realizzabilità o meno di questa strategia, né il costo sociale, culturale e politico (dal punto di vista della evidente riduzione della democrazia) che tutto questo potrà avere, ma solo evidenziare che è con questa “narrazione strategica” che ci si deve misurare.

La sinistra invece, dopo la fine del PCI, ma anche per le contraddizioni che erano già presenti nell’ultima fase di vita del Partito Comunista , non ha ancora oggi un vero disegno strategico da contrapporre alla modernizzazione liberista dell’Italia perseguita da Renzi. Una prima fase è stata soprattutto difensiva ed identitaria. Alcuni hanno perseguito l’ inserimento nel centro-sinistra, nell’idea di poter contribuire ad un disegno strategico comune anche se conflittuale (“la sinistra del centro-sinistra”). Nelle sue diverse varianti, (PdCI, PRC nel governo Prodi, SEL) ha dimostrato di non funzionare.  Ora sembra non esistere nemmeno più come possibilità, dato il passaggio dalla visione inclusiva e plurale del centro-sinistra incarnata a suo tempo da Prodi a quella esclusiva ed integralista rappresentata da Renzi (neo-fanfaniana per chi voglia fare paragoni storici).

L’unico tentativo di ripensare un disegno strategico è quello tentato dal PRC nella prima fase della segreteria Bertinotti. Ha avuto però molti limiti dal punto di vista dell’analisi, spesso stimolante ma anche superficiale, per l’identificazione idiosincratica con un leader, per la scarsa attenzione agli strumenti con i quali quella strategia poteva essere perseguita.  Alla fine è diventato contraddittoria ed incomprensibile. La proposta strategica era solo un modo enfatico per dare maggiore dignità a svolte tattiche improvvisate.

Ora abbiamo l’assenza di un vero disegno strategico. Questo non significa che su gran parte delle questioni politiche ed economiche contingenti le posizioni espresse non siano per lo più corrette. Ma non c’è la capacità di unire le singole posizioni in un quadro unitario che indichi una prospettiva. Una “grande strategia” è anche la capacità di indicare un “lieto fine”, per quanto ovviamente parziale e provvisorio esso sia, ma credibile e con una sensibile incidenza sulla vita delle persone. Per usare le parole della Slaughter una strategia che “ci orienti (…) e ci fornisca sia una direzione comune che la fiducia e l’impegno per condurci alla nostra destinazione.”.

Ci sono due false soluzioni a questo problema. La prima è di ripescare strategie del passato e riproporle pensando che possano funzionare e che siano credibili, unificanti e mobilitanti. La seconda è di pensare di influire dall’interno su una correzione di strategie definite da altri. Detto questo resta molto da fare in termini di adeguatezza dell’analisi, di capacità di formulare proposte ma soprattutto credo che si debba ripartire dai bisogni sociali e dal senso comune, non per appiattirsi sull’esistente, ma per formulare una “grand strategy” che davvero possa uscire dai circoli mentali viziosi nei quali spesso ci siamo dispersi in questi anni. Per realizzare questo obbiettivo possiamo contare sull’emergere di una nuova sinistra a livello europeo (la campagna per la candidatura di Tsipras, che coagula forze importanti, è parte di questo processo), come della ricca esperienza dell’America latina, quindi non partiamo certo da zero.


Franco Ferrari

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